Sono passati 30 anni da quando l’arresto di Mario Chiesa segnò l’inizio di “Tangentopoli”. Era il 17 febbraio 1992 e l’anniversario di quell’evento ha animato un vivace dibattito sul bilancio di quella stagione che senza alcun dubbio ha segnato un prima e un dopo nella politica italiana.

Nella prospettiva meramente tecnico-giuridica, i numeri parlano da soli e danno l’evidenza del fenomeno. In riferimento al solo tribunale di Milano, l’inchiesta denominata “Mani pulite” ha prodotto circa 3.200 richieste di rinvio a giudizio da cui sono scaturite 269 proscioglimenti, 1.254 condanne e 161 assoluzioni nel merito. Numeri che non parlano di un fenomeno patologico. Non può quindi certo affermarsi, come pure invece tutt’ora si è detto da parte di alcuni, che quell’inchiesta sia stata una specie di invenzione finalizzata a realizzare una sorta di colpo di Stato. La corruzione c’era ed era particolarmente diffusa.



Si è inoltre molto discusso dell’abuso della custodia cautelare da parte dei pubblici ministeri che quella stagione animarono. Per un verso, va ricordato che nessun provvedimento cautelare di quell’epoca ha conosciuto annullamenti o particolari bocciature nei diversi gradi di giudizio successivi. È allora più corretto riconoscere come quei pubblici ministeri riuscirono a dare alle norme cautelari un’incisiva ma non illecita applicazione che consentì il sistematico arresto di personaggi politici e grandi funzionari che, certamente, mai prima avrebbero immaginato di poter essere posti in manette.



Da questo punto di vista fu davvero una rivoluzione. Sul punto va sottolineato un interessantissimo passaggio di una bella intervista rilasciata da Gherardo Colombo al Corriere della Sera di qualche giorno fa in cui l’ex magistrato ricorda, per averlo vissuto in prima persona, come sino a quel momento ogni tentativo di avviare analoghe attività di indagine era miseramente naufragato in quello che veniva considerato “il porto delle nebbie”.

Ricorda infatti Colombo come fino a quel momento storico accadeva che si avviassero indagini, che si trovassero prove, ma poi arrivava la Cassazione, su sollecitazione della procura di Roma le indagini trasmigravano e tutto finiva sostanzialmente nel nulla. Il rapporto fra politica e magistratura era evidentemente stato fino a quel momento improntato a una certa attenzione a che il manovratore non venisse disturbato. Poi quella sorta di rispetto salta. La magistratura, che sin lì si era preoccupata di seguire gli “inviti” della politica per cambiare la sorte delle inchieste, complice anche la caduta del muro di Berlino, decide che è arrivata l’ora di percorrere altre strade.



Questo aspetto, assai poco ricordato, ha invece un’estrema rilevanza per una obiettiva ricostruzione di quella stagione giudiziaria, rappresentando in modo cristallino quell’inversione del rapporto di forze fra politica e magistratura che, se per un verso a distanza di anni ancora anima la vita della nostra Repubblica, per altro verso rende comprensibile lo stato d’animo di frustrazione vissuto sino a quel momento da alcuni magistrati che poi, all’improvviso, hanno trovato il modo di rifarsi.

Se è quindi difficile parlare di abusi sul piano tecnico, non c’è dubbio che il vero problema era e resta la stabilizzazione di quel rapporto che da quegli anni in poi ha vissuto l’eccesso opposto, producendo la famigerata supplenza che, per esempio, spinse quei pubblici ministeri milanesi a ribellarsi pubblicamente contro il governo per l’approvazione di un decreto che riscriveva le norme sui criteri di applicazione delle misure cautelari.

A distanza di trent’anni paghiamo ancora quello scotto. Tuttavia, lo ripetiamo, “Mani pulite” non fu una rivoluzione. Da un punto di vista politico, la fine della prima Repubblica era già scritta nei conti dello Stato prima ancora che nelle sentenze. Nel 1970, anno in cui si attua il decentramento amministrativo, il rapporto debito/Pil era al 37,1%; appena due anni dopo, completato il trasferimento di alcune funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, il suddetto rapporto balzò al 47,7%; alla fine del governo Spadolini, nel 1983, il rapporto era al 70%, per spiccare il volo fino al 92% con il successivo governo Craxi. Nel 1992, infine, il deficit del bilancio dello Stato aveva raggiunto la cifra monstre di 150mila miliardi con un rapporto debito/Pil del 118% da cui derivò, l’11 settembre 1992, l’abbandono dell’Italia al suo destino da parte della Germania. Poco dopo la caduta del Muro, agli albori degli anni 90, l’Italia fu quindi costretta a una prima storica stretta del bilancio pubblico e così il sistema economico del paese, imperniato sulle tangenti, implose.

Gli imprenditori iniziarono a parlare con i pubblici ministeri non perché sottoposti a torture, ma semplicemente perché fino a quel momento erano riusciti a trasferire il costo delle tangenti sulla pubblica amministrazione, mentre da lì in poi, improvvisamente, non poterono più farlo, erodendosi così fatalmente i loro margini; ciò li indusse a sentirsi concussi e non più complici della corruttela diffusa.

Tutto questo la politica di allora non ebbe la lucidità di comprenderlo. Nel drammatico discorso pronunciato da Craxi in parlamento nel luglio del 1992, non c’è traccia della formulazione di una proposta che partendo dalla reale consapevolezza del fenomeno, ipotizzi la strada per venirne fuori. Da qui la radicalizzazione dello scontro fra i due poteri che la successiva stagione di Berlusconi porterà all’apoteosi. Mentre Craxi in Parlamento si limitava, con quell’intenso discorso, a operare la chiamata in correità dell’intero sistema, pensando così di risolvere la questione, dall’altra parte iniziava a costituirsi il “partito” dei giudici, che se rendeva plausibile la ribellione alla volontà del Parlamento, ancor di più escludeva qualsiasi possibilità di riconoscimento della legittimità altrui. Un corto circuito alimentato dalla spinta popolare e dallo slancio dei media.

Se quindi la stagione di “Mani pulite” ha fatto tabula rasa di un sistema politico marcio, la cancellazione di quelle identità politiche su cui si fondava la democrazia postbellica non ha prodotto la rigenerazione di una nuova vera classe politica, lasciando di fatto un vuoto e una supplenza, il tutto senza poi eliminare la corruzione, come riconosciuto da tutti.

Se si può rimproverare alla magistratura di aver agito da lì in poi pensando di dover essere i commissari di una politica corrotta, a quella classe politica va rimproverato di non aver saputo riconoscere lo stato in cui versava, auto emendandosi. Esattamente, corsi e ricorsi storici, ciò che ora qualcuno rimprovera alla magistratura travolta dallo scandalo Palamara.

Come allora auspicato sempre da Colombo, occorre ora operare uno sforzo per trovare tutti insieme una soluzione, a differenza di quanto non accadde 30 anni fa. Alle monetine lanciate a Craxi occorre sostituire la disponibilità al dialogo, che deve essere avvertito come l’ineludibile punto di partenza di cui il paese ha ancora bisogno, benché a predicarlo, ahinoi, siano ancora in pochi.

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