Chissà se esistono delle congiunzioni astrali che intrecciano passato con presente, e magari con il futuro, per comprendere una svolta storica epocale. Forse la filosofia della storia diventerebbe quasi una riflessione banale rispetto alle sequenze cronologiche di un’epoca trentennale che ti fa riflettere sul passato e sulle cause che hanno provocato il presente.



La nemesi diventa una sorta di banale mistero di fronte a questo ultimo 17 febbraio 2022, quando è caduto il trentesimo anniversario dell’inizio della grande tragica buffonata di Tangentopoli e, nello stesso giorno, viene rinviato a giudizio per violazione del segreto d’ufficio uno dei “principi” di quella operazione del 1992: il pubblico ministero Piercamillo Davigo. Qualcuno ha commentato che la coincidenza è solo uno  scherzo della storia, ma ha subito aggiunto che è “una storia grave”.



Tutto questo ha avuto l’effetto di rilanciare ancora di più il dibattito e lo scontro ancora in corso su Tangentopoli. 

Da più di tre anni stanno uscendo, con un ritmo quasi ossessivo, delle rivelazioni incredibili sull’operato scandaloso della magistratura italiana in questi ultimi trent’anni. E nello stesso tempo si ricordano i soprannomi che si davano a Davigo: “Il Kelsen della Lomellina”, “il giurista che difende la presunzione di colpa, al posto di quella d’innocenza”. Applausi amari!

Nello stesso tempo si ricordano i protagonisti politici  di quell’epoca, il trattamento loro riservato. E quindi la tragedia di 32 suicidi, diverse morti poco chiare legate alle famose privatizzazioni, la perversione della carcerazione preventiva per costringere (ad ammettere?) il sistema delle tangenti e del finanziamento illecito ai partiti che, come disse Bettino Craxi in una udienza processuale, si conosceva in Italia fin da quando lui e i suoi amici e colleghi portavano i pantaloni alla zuava. Solo la magistratura non si era accorta di nulla.



In più, nel ricordo di questi giorni, molti fanno i paragoni di come si stava trent’anni fa e di come gli italiani stanno adesso.

Nessuno mette in dubbio ad esempio che quella classe politica liquidata dal celebre pool di “Mani pulite” fosse più preparata di quella attuale.

Tuttavia, molti hanno insistito per anni sul problema del debito pubblico creato in quei tempi. Eppure secondo i dati ufficiali di Bankitalia (vedere per credere o per querelare) il debito pubblico in rapporto al Pil nel governo Craxi 2 sale all’89,11%, l’inflazione è stata ridotta dal 17 al 4% e l’Italia è il quarto paese economicamente più forte del mondo.

Il debito sale dopo cinque anni con i governi di Goria, De Mita e Andreotti, fino a superare i 100 punti nel rapporto con il Pil con l’Andreotti 6 e l’Amato 1. Il debito scenderà solo una volta sotto il 100, al 99,79 nel 2007 con il Prodi 1, ma solo per un anno, poi riprenderà la sua corsa fino al livello attuale che è ormai vicino al 160% del Pil. 

E non sembra che la cosiddetta “gente” stia meglio che negli anni della cosiddetta prima repubblica, che poi è l’unica che ci sia stata perché la Costituzione e la struttura dei tre poteri è sempre stata la stessa. E non è stata male solo per la pandemia.

È piuttosto difficile dimostrare le colpe della prima repubblica sul piano politico quando furono di fatto sciolti cinque partiti democratici e rimasero solo i post-comunisti e i post-fascisti, che poi lasciarono spazio, per incapacità, all’antipolitica che si vede ancora adesso, senza oltre tutto avere dei partiti che almeno fanno un congresso.

Si è insistito soprattutto sulle colpe di Bettino Craxi, costringendolo all’esilio, facendolo morire dopo averlo fatto operare in un ospedale dove si lavorava al lume di candela e lo si demonizzava perché probabilmente, anche nei dieci anni i cui sopravvisse allo “scandalo” di “Mani pulite”, continuava a parlare prevedendo tutto quello che avveniva e sarebbe avvenuto. Si era creato, secondo il leader socialista, un sistema mediatico-giudiziario al servizio di grandi poteri italiani (che erano al disastro e furono ben dipinti come “capitani di sventura”) e di poteri esteri che volevano un’Italia “svenduta”, come spiegavano gli analisti più attenti.

L’economia mista italiana venne smantellata, la parte pubblica letteralmente svenduta attraverso le banche d’affari anglo-americane senza neppure una trattativa chiara e utile per risanare il debito. 

Craxi poneva anche la questione di una globalizzazione fatta senza criterio, che alla fine avrebbe procurato grandi diseguaglianze e seri guai all’Italia. In più prevedeva che non solo la politica stesse per essere eliminata dalle ragioni della finanza, ma nella magistratura si sarebbe scatenata una lotta incredibile al punto “che si sarebbero arrestati l’un l’altro”. Non sbagliò di molto a quanto si può vedere nelle varie procure italiane. È forse per questa ragione che l’ipocrisia del governo D’Alema volle un funerale di Stato per Craxi? Cose da non credere! 

In tutti i casi, ci si chiede: perché avvenne tutto questo? Il finanziamento pubblico andava riformato e quello illegittimo era conosciuto da tutti, ma ci si accorse solo nel 1992 che esistevano le tangenti, mentre ci si dimenticò delle valanghe di miliardi che il Pci incassava periodicamente da una potenza nemica come l’Urss. Ci sono libri, documenti al proposito. C’erano i presidenti delle Camere che approvavano sistematicamente i bilanci dei partiti. Anche la signora Nilde Jotti sapeva che il suo partito prendeva sistematicamente i rubli dall’Urss che venivano controllati a Fiumicino quando arrivavano in aereo e poi venivano scambiati in Vaticano. Eppure la signora Jotti approvava i bilanci dei partiti. Ma la colpa era solo di Craxi.

È strano che nessuno fosse a conoscenza dell’incontro tra Leonid Breznev ed Enrico Berlinguer, nel novembre del 1978, quando il leader russo disse a Berlinguer di finirla con l’eurocomunismo e il compromesso storico altrimenti le casse non potevano essere più rifornite adeguatamente.

Era tutto volutamente dimenticato: forse ci si chiudeva gli occhi di fronte all’evidenza persino del numero dei conti correnti, e quando crollò il muro di Berlino nel 1989 il Pci non ebbe più nulla da dire politicamente e dovette persino cambiare il nome due o tre volte. L’operazione scattò per questo e si poteva lasciar vivere, sotto altro nome, anche i post-fascisti, che comunque non costituivano certamente un’alternativa politica.

Uno scandalo sul finanziamento illecito era quindi la scoperta dell’acqua calda, che però andava indirizzato contro tutte le forze democratiche italiane, ma soprattutto contro i riformisti, che con Craxi avevano ottenuto l’ingresso dell’Italia nel G7, la ricchezza del Nord e di Milano, che era fra le prime tre più ricche città del mondo. Il tutto diventava insopportabile a chi da sempre aveva criticato o combattuto il riformismo turatiano, quello che era nato proprio a Milano.

Era stato il centrosinistra, con i riformisti in prima linea a varare, malgrado l’astensione del Pci, lo Statuto dei lavoratori e a impegnarsi nel 1978 per la creazione del Welfare state. Nel frattempo Milano diventata capitale della moda nel mondo e dava solo in questo campo il 5% del Pil all’Italia.

Era, di fatto, la rivincita di Filippo Turati, la sconfitta del bolscevismo nel mondo, l’affermazione del socialismo liberale e democratico. Nel 1977, quando fu ricostruita a Treviri la casa di Marx distrutta dai nazisti, Willy Brandt chiamò il giovane segretario socialista Bettino Craxi a tenere l’intervento inaugurale. Chissà perché non chiamò qualcun altro magari legato all’Urss?

Di fatto, l’odio verso il riformismo fece decollare la più perversa alleanza tra grande finanza ed ex partiti della sinistra comunista storicamente perdente, che si trasformarono in accaniti privatizzatori e amici di quelli che, sul “Britannia”, fecero il lavoro dei “babbei” come disse Enrico Cuccia.

L’alleanza per quella che fu chiamata all’inizio, malgrado morti e suicidi, la “rivoluzione di velluto”, era un quadrilatero tra finanza neoliberista in aperto contrasto con il keynesismo, sinistra sconfitta storicamente, magistratura cresciuta in Italia con il codice penale di Alfredo Rocco (guardasigilli di Mussolini) controfirmato da Vittorio Emanuele III, e una stampa asservita perché sempre agli ordini degli editori che in Italia erano poi i “capitani di sventura”.

Curioso come oggi tra alcuni giornalisti si parli di “vendetta” della   “casta” che non si capisce bene quale sia e ci siano ripensamenti per aver fatto da megafoni contro gli inquisiti degli anni Novanta, anche se poi molti vennero assolti.

Qui bisognerebbe sconfinare nella storia poco edificante del giornalismo italiano. Si può però ricordare solo una frase di Carlo Tognoli, il sindaco della “Milano da amare” che nel 2010, in una ricorrenza al Corriere della Sera, parlò di Walter Tobagi: “Tobagi – disse Tognoli – non era una vittima simbolica del terrorismo, ma l’obiettivo preciso di ambienti che lo volevano eliminare  perché socialista, riformista, preparato, studioso, con una prospettiva professionale di grande rilievo nel mondo giornalistico”.

Sarebbe stato difficile, con Tobagi direttore, pubblicare in anteprima una “dritta” che arrivava direttamente dal Palazzo di giustizia.

Al termine di un riassunto triste, si può comunque ricordare una frase che Craxi ripeteva spesso: no, la battaglia storica non gliela farò mai vincere.

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