In una scuola media del cuneese 300 studenti, 12 classi, sono stati sospesi per avere truccato e modificato le foto con scritte offensive o denigratorie

Viene da piangere, a leggere notizie come quella pubblicata ieri da Repubblica: trecento (trecento!) alunni sospesi in una scuola media (una scuola media! Ragazzi dagli 11 ai 14 anni…) del cuneese, per aver scattato foto di nascosto a insegnanti e compagni, durante la Dad o in classe, pubblicandole poi sui gruppi social modificate con “scopi denigratori e accompagnate da parolacce, insulti, allusioni sessuali”. Una sospensione accompagnata dall’obbligo di frequentare le lezioni, “per riflettere su quanto accaduto”.



Viene da piangere per tante ragioni.

La prima, naturalmente, è la tristezza per questi poveri ragazzi. Che proposta educativa hanno ricevuto, che immagine di vita, di adulti hanno avuto davanti, per pensare che sia normale fare una foto a qualcuno, “taroccarla” per renderla sessualmente eccitante, ripostarla accompagnata da commenti e apprezzamenti che si possono facilmente immaginare?



La seconda, altrettanto naturalmente, è per il commento che accompagna la notizia: il collegio dei docenti della scuola “ha avviato una profonda riflessione interna, condividendo l’amarezza per la superficialità e la mancanza di rispetto manifestata dai ragazzi, verso compagni e insegnanti”. Di fronte a un fatto così drammatico, qual è la reazione? Il lamento, ma sotto sotto il rimprovero, per “la superficialità e la mancanza di rispetto” dei ragazzi.

Ma in che mondo vivete, cari colleghi? Di che cosa vi stupite? Abbiamo – abbiamo, noi, noi adulti – costruito un mondo in cui un bambino delle elementari col suo smartphone in mano può accedere a tutti i siti porno della Terra. Abbiamo costruito un mondo in cui ogni giorno su milioni di pagine internet si sbeffeggia chiunque, e chi più insulta più vale. Abbiamo difeso tutto questo col mito della “libertà di espressione”. E adesso ci stupiamo che i nostri ragazzi siano così?



Altro motivo di tristezza. Si lamentano, gli esimi colleghi, che tutti i ragazzi siano stati conniventi, che nessuno abbia denunciato quel che stava succedendo. Di nuovo: in che mondo vivete? Da che mondo è mondo, i ragazzi fanno “corpo”, si spalleggiano l’un l’altro, considererebbero una vergogna denunciare un compagno al mondo degli adulti, quasi inevitabilmente percepito come un avversario, ostile.

E allora? Non c’è niente da fare? Dobbiamo rassegnarci a questo destino inevitabile? Perché, detto fra parentesi, un provvedimento disciplinare è sacrosanto, serve per rimarcare la colpa commessa; ma non saranno certo le punizioni a fermare una mentalità che corre compatta in una direzione.

No, non è vero che non c’è niente da fare. La possibilità si nasconde in quel “quasi” che ho infilato prima. Non è del tutto inevitabile che i ragazzi considerino gli adulti come avversari. La crepa nel muro della loro ostilità è un adulto che li guardi con simpatia, che si immedesimi con loro, che capisca che le loro sciocchezze sono il “raglio dell’asino”, come dice il mio amico Franco Nembrini quando commenta Pinocchio: sono il grido scomposto di un’umanità ferita che mendica uno sguardo benevolo, che invoca un adulto che prenda sul serio il loro desiderio di bene e abbia la pazienza di far loro compagnia, di condividere il loro bisogno e la loro fatica, senza limitarsi a bacchettarli e a impartir loro sagge ma inutili lezioni di netiquette. Se un ragazzo di quelli avesse sentito uno dei suoi insegnanti amico, avrebbe avuto il coraggio di raccontare il disagio che stava vivendo.

Questa è la sfida che i ragazzi del cuneese – ironia della storia, dai Trecento delle Termopili ai trecento di Cuneo… – ci lanciano: c’è un adulto che mi guarda con simpatia? C’è un adulto in grado di raccogliere il raglio di quell’asino che sono? C’è un adulto che testimonia un modo più bello di stare al mondo di quello che mi invade dai social?

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