Le immagini del suo funerale appartengono a quei fotogrammi che, senza chiedere autorizzazioni, possiedono la forza d’urto di scalfire indelebilmente la memoria collettiva. Attimi sferzanti, consolatori, di promemoria. A Calcutta, nel giorno dell’addio a Teresa, erano quattro i chilometri di gente in coda: dovettero imbalsamare il corpo perché reggesse i sette giorni di veglia organizzati nell’afa appiccicosa e umida dell’India. Bandiere a mezz’asta, funerali di Stato, il mondo dei potenti in ginocchio per una donna che, come eredità materiale, lasciò due sari bordati d’azzurro e la bacinella necessaria per lavarli con regolarità: ci sono dettagli che contano più d’infiniti discorsi.
Le sue ultime parole furono umane al punto d’apparire persino fragili: “Non riesco più a respirare”, pronunciate da una donna che aveva prestato il suo respiro al mondo degli oppressi perché non morisse asfissiato. Il suo funerale, che per uno strambo gioco della Provvidenza viaggiò parallelo a quello della principessa Diana, non finì in quel sabato umido di settembre. È tutt’oggi in corso di svolgimento: la sua memoria è dappertutto.
Quarant’anni fa, il 17 ottobre 1979, le consegnarono il Premio Nobel per la pace: per “il lavoro compiuto nella lotta per vincere la povertà e la miseria, che costituiscono anche una minaccia per la pace”. Lei, ricevendolo (rifiutò anche il banchetto cerimoniale, chiese i seimila euro di fondi per i bisognosi di Calcutta), parlò di aborto, infanzia, povertà ed emarginazione partendo dal racconto della vita che si portava cucita addosso.
Diedero il Nobel per la pace ad una donna in guerra, che fece la guerra ai potenti armati di potere: “Non basta fare il bene – si spiegò così bene che tutti capirono cosa volesse dire –: il bene va fatto bene perché non corra il rischio di diventare male”. Attaccò a ragion veduta: per molti la scoperta della miseria dell’uomo è pretesto per lo sfruttamento. C’è di peggio: qualcuno la prepara, la provoca. Per poi guadagnarci: “Per guadagnarsi il titolo di benefattori – scriveva don Mazzolari – per farsi pagare il servizio di recupero, lo buttano a terra e lo fanno a pezzi, l’uomo”.
Tenne sotto scacco il mondo con la sola arma della preghiera, della parola pregata: s’inginocchiò solo di fronte al suo Dio. Se s’inginocchiò di fronte a qualcun altro, fu solo per lavargli i piedi, per esercitare l’unico potere che ancora oggi fa guerra a mondo: la forza dell’amore.
A volte la pace è più snervante della guerra: è vero che nessuno spara, ma sono tutti lì a prendere la mira. Mentre prendevano la mira, Teresa divenne paladina della pace, spartendo con Napoleone una sola convinzione: se si vuol la pace, si dovrebbero evitare le punture di spillo che precedono i singoli colpi di cannone. Rovistando tra i brogliacci delle sue intimità dopo la sua morte, a fare scalpore fu una confidenza: “Il Cielo non significa nulla per me: mi sembra un luogo vuoto”. Visse la sua notte oscura della fede non per un breve periodo – come accade a tanti – ma per cinquant’anni della sua vita, senza che nessuno se ne accorgesse mai: lo tacque per paura che, parlando della sua esistenza, si potesse richiamare l’attenzione su di sé, sottraendola ai poveri cristi. A Cristo.
L’uomo potrà ridurre l’uomo a spazzatura. C’è sempre qualcuno che, nella spazzatura, troverà la perla di gran prezzo. E, sporcandosi, andrà a riprenderla.