Tra marzo e aprile, ha spiegato l’Istat ieri, in Italia si è già registrato un calo di 400.000 occupati. Una diminuzione che è stata generalizzata, che ha riguardato sia gli uomini che le donne, sia i lavoratori dipendenti che indipendenti e tutte le classi di età. Il 17 agosto scadrà la proroga del divieto di licenziamento per ragioni economiche e considerando che anche le misure di cassa integrazione straordinaria sono limitate nel tempo, come pure la sospensione dei pagamenti di tasse e contributi delle imprese, all’orizzonte non sembra esserci nulla di buono. “C’è un aspetto centrale di cui tenere conto. Quest’anno è come se economicamente avessimo avuto tre mesi di ‘vuoto pneumatico’, come se non fossero mai esistiti. Se magicamente potessimo tornare in brevissimo tempo alla situazione pre-Covid non ci sarebbero problemi particolari una volta finite le risorse per i sussidi. Così non è, come ben sappiamo. Per usare un’immagine è come se fossimo stati colti in auto nel deserto da una tempesta di sabbia: occorre dunque pulire e risistemare il motore prima di poter ripartire”, ci dice Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.
Professore, l’emergenza sanitaria sembra passata e ormai sono venute meno anche le limitazioni agli spostamenti degli italiani. Questo non basta a far ripartire l’economia?
Lo shock è stato violento e ha colpito in primo luogo la capacità di offerta e non ci si può illudere che ci sia una ripartenza “in automatico”, soprattutto per il clima di paura e timore a livello economico diffuso tra imprese e consumatori. Occorre quindi un “motorino di avviamento” che non può che essere lo Stato. Serve grandissima attenzione nel concentrare gli interventi in modo da dare segnali che migliorino le aspettative, soprattutto quelle delle imprese, che sono fondamentali in questa fase. Se matura la convinzione che il fondo è stato toccato e che si può solo risalire, l’attività economica può riprendere.
Non sembra questo il caso, viste le previsioni sul crollo del Pil e le preoccupazioni espresse dal mondo imprenditoriale negli ultimi giorni.
Esatto. Occorre una risposta robusta come lo shock subito, bisogna muoversi con grande rapidità da un lato e attenzione dall’altro, ma non possiamo aspettare il Recovery Fund, altrimenti rischiamo di arrivare troppo tardi.
Qual è il suo giudizio su questa iniziativa della Commissione, che ora ha preso il nome di Next Generation EU?
È un fondamentale segnale europeo ai mercati globali, ma che si svilupperà gradualmente nell’arco di uno-due anni. Sono tempi che potranno forse andar bene per la Germania, ma non per noi. Bisognerebbe trovare il modo di anticipare quello che il Recovery Fund ha promesso di fare e che farà. Passando dal macro al micro, se io sapessi di poter attingere a una linea di credito da qui a un anno, ma avessi bisogno nel frattempo di liquidità, potrei chiedere a una banca di anticiparmi quelle risorse che avrò più avanti.
L’Italia può fare qualcosa del genere? A chi potrebbe rivolgersi?
Non dobbiamo dimenticare che per avere le risorse anche l’Italia dovrà fare la sua parte dicendo esattamente come vuole utilizzarle. Detto questo, credo che ci si potrebbe rivolgere alla Bce e alla Bei. L’Eurotower, infatti, conosce bene il Recovery Fund e non dovrebbe avere grossi problemi ad anticipare almeno una parte dei fondi. La Bei invece finanzia proprio progetti di investimento: occorre quindi presentarglieli al più presto.
Dunque non possiamo aspettare la Nota di aggiornamento del Def, come ha detto Gualtieri, per avere il piano nazionale su come usare i fondi del Recovery Fund.
Assolutamente no, non possiamo aspettare, occorre predisporre subito questo piano.
Dal suo punto di vista quali sarebbero gli interventi prioritari da inserire in questo piano?
Ci sono almeno due capitoli che dovrebbero poter passare a vele spiegate: sanità e scuola. Sulla prima non credo serva dire nulla, mentre la seconda è la grande dimenticata in questo periodo di grande retorica sulle lezioni online: l’istruzione non viene ancora ritenuta un investimento. Un terzo capitolo, importante per far cambiare verso alle aspettative delle aziende, sarebbe quello relativo a interventi destinati a non far chiudere le piccole e medie imprese che sono la spina dorsale del nostro sistema produttivo. Sento molto parlare delle grandi aziende, ma poco delle pmi. Serve un sostegno all’attività economica per consentire che non falliscano.
Occorre quindi migliorare il decreto liquidità, anche con più stanziamenti a fondo perduto?
Sì, con intelligenza, cercando cioè di evitare di finanziare chi non ne ha davvero bisogno. Far chiudere le imprese vuol dire amplificare uno dei più grandi problemi italiani, cioè il crollo degli investimenti da dieci anni a questa parte. Finché le imprese esistono, c’è anche un potenziale, magari inespresso, di investimenti. Se chiudono, scompare anche questo potenziale.
Professore, è abbastanza pacifico che la Bei finanzi dei progetti di investimento, ma com’è possibile farsi anticipare dei fondi dalla Bce?
La forma tecnica è da inventare, ma non credo sia difficile pensare a un programma, che si potrebbe chiamare Loans in advance, cioè prestiti anticipati, che magari già rientra in qualcuna delle facilities della Bce esistenti. Tra l’altro i fondi arriverebbero a fronte di un piano chiaro e condiviso con Bruxelles riguardo il loro utilizzo. Un qualcosa di diverso dalla condizionalità e che vedo anche positivamente, come una specie di referaggio accademico che aiuta a fare meglio le cose.
(Lorenzo Torrisi)