Sulla povertà i numeri sono sempre più drammatici, come dimostrano studi e ricerche. Ad esempio, dal Rapporto Caritas 2020 risulta che oltre ai già certificati 8,8 milioni di persone in difficoltà, si aggiungono causa pandemia Covid altri 5 milioni di persone in stato di povertà. Il 2020 porta quindi a toccare la cifra di oltre 14 milioni di persone in stato di bisogno, persone ignorate dai tanti decreti governativi, mentre lo sforzo della Caritas raddoppia: “105% in più di persone assistite ad aprile, 153% in più nel solo Meridione”. Ne abbiamo parlato con don Virginio Colmegna, che ha dedicato tutta la vita all’assistenza e al sostegno dei più poveri, oggi consigliere del Centro ambrosiano di solidarietà (Ceas) e Presidente della Casa della carità “Angelo Abriani”, fondata dal cardinale Carlo Maria Martini: “L’emergenza Covid sta portando alla ribalta situazioni drammatiche che esistevano già prima della pandemia. I soldi circolano, ma non è stata rafforzata una mentalità distributiva e questo dovrebbe essere responsabilità della politica, come idea di giustizia, che invece rimane solo astratta. Oggi la gente si sente sempre più sola: è anche una povertà della disperazione”.
Come commenta le cifre impressionati raggiunte nel corso del 2020 di persone in stato di difficoltà?
I numeri che leggiamo sono indicativi, concordano tutti su quanto è aumentata la povertà, non solo in termini quantitativi, ma anche in termini qualitativi, nel senso che la povertà aggredisce anche in situazioni in cui prima dell’emergenza Covid le persone riuscivano a rimanere in piedi. Si allarga la fascia della povertà.
Quali errori sono stati commessi?
Aumentano le sperequazioni, perché paradossalmente il risparmio non è diminuito, quindi i soldi circolano, ma in un’ottica dove la mentalità distributiva non è passata e questa dovrebbe essere responsabilità della politica, il suo ruolo come idea di giustizia. Non si emargina la diseguaglianza, invece si dovrebbe partire proprio dalla diseguaglianza per creare una mentalità distributiva.
Come vede l’attuale situazione, lei che vive da sempre in mezzo ai poveri?
Durante la prima ondata c’era questo senso quasi euforico del chiudersi in casa, del dimostrare sui balconi che tutto sarebbe andato bene; adesso si avverte tutta la gravità, sottolineata dal fatto che la gente si sente sempre più sola, disperata. È una povertà della disperazione.
In che senso?
Provi a pensare, per esempio, alle famiglie dove sono presenti persone con problemi psichici. Restare chiusi in casa, per chi vive in 50 metri quadri con una persona che ha problemi di salute mentale, è qualcosa di faticosissimo. Ricevo ogni giorno telefonate di famiglie con in casa un figlio con problemi psichici che non ce la fanno più. Il tema non sono solo gli anziani, è il modo con il quale si risponde al bisogno, e ci tengo a dirlo. Quanto accade mette a nudo le diseguaglianze e i problemi che c’erano anche prima, e nel futuro nulla potrà più essere come prima.
Che fare per rispondere a questa situazione?
Tutti parlano della medicina territoriale che non c’è stata, della prossimità che non c’è, ma dovremo attraversare queste situazioni in modo realistico, fattuale, concreto. Noi stiamo lavorando molto. Quando durante la prima ondata è esploso il tema delle persone positive al Covid abbiamo ragionato su come affrontarlo. Abbiamo tenuto queste persone nelle nostre strutture per affrontare il problema non solo in modo riparativo, ma per dare un luogo fisso, una dimora, ai più fragili, a quelli che stanno per strada. Il Piano freddo del Comune di Milano, ad esempio, non risponde in mondo sufficiente al problema delle persone senza fissa dimora, non si possono ammassare nei dormitori e basta.
Voi come avete reagito?
Abbiamo rivoluzionato le nostre strutture, ad esempio portando gli spazi nelle stanze da sei-otto persone a due-tre persone, ma questo è un cambiamento che tutti, amministrazioni comunali e governo, debbono fare. C’è una domanda di solidarietà forte e questa domanda deve diventare distributiva, di giustizia sociale.
C’è poi il problema degli under 18, che nelle scuole trovavano un pasto sicuro che a casa invece non hanno.
Esatto. Il tema della scuola è diventato drammatico. Seguiamo i bambini dei campi rom e migranti, la loro grande risorsa era andare a scuola, dove incontravano un ambiente di serenità. Stiamo investendo su di loro. A noi non piace parlare solo dei dati dal punto di vista sociologico, ci interroghiamo su quale livello di politica sociale riusciamo a mettere in piedi. Si parla tanto dei cosiddetti eroi, ma siamo solo testimoni di bontà, come dice l’enciclica del Papa Fratelli tutti.
Prevale anche un individualismo crescente, il tentativo di salvarsi da soli, mentre la Chiesa ci insegna che siamo tutti nella stessa condizione. Che ne pensa?
C’è un problema di mancanza di condivisione. Il virus ha dimostrato che nel mondo globalizzato ha abbattuto tutte le barriere. Il modo di reagire mette in gioco la qualità della società. Un ragazzo mi ha detto: la mia è una fragilità interiore. Significa una incapacità di riflettere. Il Covid ci deve portare a reagire, non solo con i decreti del governo o con la scienza. Vedo quotidianamente come le persone che ospitiamo nelle nostre comunità sono spinte a riflettere su quanto sta accadendo, si chiedono: perché devo stare solo? Credo sia una riflessione importante.
(Paolo Vites)