Le voci che arrivano da Casteldaccia rischiano di soffocare la realtà dei fatti. L’orrore per la morte dei cinque operai che lavoravano nella rete fognaria del palermitano si è infatti subito intriso di domande sulle loro condizioni di sicurezza, domande che sono diventate sospetti, accuse, denunce.
Questa faccenda ha certamente una dimensione sociale e rappresenta chiaramente un certo modo di lavorare che è presente nel nostro Paese e che suscita non pochi interrogativi, ma quello che è davvero accaduto in quel cunicolo va ben oltre e chiede di essere guardato. Un operaio che è dentro alla rete fognaria si sente poco bene, non capisce che quel malore è dovuto all’idrogeno solforato presente nell’ambiente, chiede aiuto. Scende un secondo operaio in soccorso del collega, ma anche lui si sente male. Scende un terzo: stessa situazione. Un quarto: anche lui sta male. Un quinto: identica scena. Interviene pure un sesto, che si trova adesso in coma in condizioni gravissime. Fa impressione la catena che si è creata dinnanzi a quel primo malore, come se il palesarsi del male, del dolore e della morte non rendessero l’uomo come le altre bestie, più protettivo verso di sé e verso la propria vita, ma lo spingessero ad essere più umano. È questo il mistero insondabile di Casteldaccia: l’umano che diventa tenace, testardo, audace dinnanzi al bisogno, dinnanzi al dolore della vita.
È come se ogni uomo coinvolto in questa storia non avesse ponderato fino in fondo le conseguenze delle sue azioni, privilegiando una sorta di movimento dell’io che prepotentemente gridava: “Bisogna andare”. Se questo è vero, allora ciò che ne segue è forse ancora più incredibile, perché implica che tutto il costrutto sociale del nostro tempo, tutta la cattiveria dei nostri giorni, tutto il sistema su cui si reggono le relazioni tra esseri umani in questo scorcio di secolo, non è sufficiente, non basta, non riesce a soffocare il cuore, la natura originale del cuore, quel bisogno di verità, di bontà, di giustizia e di amore che ci costituisce e ci rende quel che siamo. Se nemmeno la morte, se nemmeno il pericolo, se nemmeno la moria dei colleghi riesce a fermare l’impeto di vita di un individuo, allora niente potrà davvero ridurlo, davvero rattrappirlo.
La coscienza dell’uomo non è un prodotto sociale, soggetto allo spirito dei tempi, ma il baluardo, l’ultimo baluardo, che un Destino buono e misericordioso ha messo dentro di noi. Che cosa avranno pensato quegli operai morendo? Che cosa avranno avuto il tempo di pensare, di vedere, di intuire? Che fatto potente li ha accompagnati in quel gesto pieno di bene? Forse il ricordo sfuggente di un amore, di un figlio, di un amico, di un desiderio, di un sogno. Quanta verità si può consumare nel cunicolo di una fogna, quanta umanità può emergere nell’orrore della blatta!
Davvero noi non sappiamo quale sarà il luogo dove ritroveremo noi stessi, dove la nostra natura riemergerà prepotentemente, dove ci riscopriremo non monadi senza scopo, ma persone che con ogni gesto possono rendere più vero l’ambiente dove si trovano. Nemmeno la fogna è riuscita a cancellare la grandezza della vita. E quella grandezza, così tragica al pensiero delle mogli e dei figli rimasti improvvisamente senza mariti e padri, è come il segno e la testimonianza per ciascuno di noi che non ha senso smettere di sperare, che non ha senso chiudere le porte al nuovo che arriva, alla vita che si fa strada.
È così grande quello che è accaduto a Casteldaccia che, in fondo, un cunicolo così se lo augurano tutti. Non per morire, ma vedere la vita che s’impone su tutto, anche sulla disperazione di questo tempo cinico e impaurito. Un tempo di uomini soli che possono essere ridestati soltanto da un bisogno vero, da un grido d’aiuto che rimette in moto tutto. E rende grande il cuore.
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