Un questionario promosso nel mese di ottobre da Anaao-Assomed, sindacato dei medici dirigenti, tra i suoi iscritti ha fatto emergere una situazione inquietante: solo il 54,3% dei medici ospedalieri pensa di lavorare ancora in un ospedale pubblico nei prossimi due anni, mentre oltre il 75% si lamenta della poca valorizzazione del proprio lavoro durante la pandemia. Eccesso di lavoro, carenza di organici, rischiosità, retribuzione non adeguata sono i motivi che portano il 60,3% dei medici a definirsi insoddisfatti del lavoro che fanno. Ovvio che se queste percentuali dovessero diventare reali, la sanità pubblica si troverebbe in una situazione drammatica e insostenibile. Secondo Emanuele Catena, direttore UOC di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano, “si tratta di una reazione emotiva dovuta alla stanchezza palpabile che vive chiunque lavora nelle strutture ospedaliere da quando è cominciata la pandemia. Si tratta anche di una situazione che si trascina da ben prima della pandemia, perché le carenze e le difficoltà, compresa la scarsa valorizzazione professionale, sono problematiche che il sistema sanitario nazionale italiano si trascina da sempre. È anche vero che però proprio l’emergenza pandemia ha fatto emergere una capacità di sacrificio e un cambiamento nelle relazioni interpersonali del personale medico che ci dicono proprio l’opposto di quanto emerso dal questionario”.



Dal punto di vista della sua esperienza personale come dirigente ospedaliero, ha notato anche lei quanto emerge dal questionario di Anaao-Assomed?

Sicuramente in questa fase di seconda ondata si vive una situazione di stanchezza generalizzata che è visibile, palpabile nel personale, sia tra i medici che tra gli infermieri. C’è una sensazione di fatica e quello che comporta, cioè una difficile tolleranza di situazioni che magari prima venivano gestite diversamente. È una reazione comprensibile. Ma da qui a dire che si vuole abbandonare l’incarico, a livello di queste percentuali, mi sembra una esagerazione.



Non crede a questa fotografia che mostra una grave sofferenza professionale?

Guardi, è normale sentire dire espressioni del genere: “Cambierei lavoro, non ce la faccio più”. È una espressione da interpretare come uno sfogo momentaneo, dovuto alla fatica, ma nessun medico o infermiere con la professionalità e la responsabilità che ha maturato abbandonerebbe mai il posto di lavoro. Queste sono frasi emotive, ma nel momento in cui si presenta una grossa difficoltà, un sacrificio richiesto – e lo vediamo ad esempio quando crescono i casi di ricovero e di conseguenza bisogna aumentare i turni – il comportamento è esattamente l’opposto. Le persone sono prontissime a intervenire e non si tirano indietro.



Certo, lo abbiamo visto e continuiamo a vederlo, forse però c’è qualcosa che si trascina da prima della pandemia, ad esempio, le retribuzioni non adeguate all’impegno o uno scarso coinvolgimento nelle decisioni. Può essere così?

Questo è un fattore già presente prima del Covid, è difficile anche premiare le persone, soprattutto nel pubblico. Io faccio il primario e questo problema me lo pongo: gli avanzamenti di carriera, i premi per il lavoro svolto, il conferimento di posizioni ulteriori sono sempre molto lente da ottenere, richiedono molta fatica. E ritengo che lo stipendio medio del medico e dell’infermiere in Italia non sia all’altezza delle responsabilità che vengono richieste.

Soprattutto a confronto con le retribuzioni dei vostri colleghi all’estero?

Già. Si fa fatica a premiare le persone che spesso non vedono riconosciute la propria professionalità, questo è vero. Gli aspetti organizzativi in un ospedale pubblico sono una macchina molto lenta da smuovere: penso all’acquisto di materiale, a procedure lentissime e complicatissime. Procedure studiate per garantire la trasparenza che a volte diventano dei valichi insormontabili.

L’emergenza Covid pensa possa servire a migliorare la situazione?

Penso che sicuramente le persone stanno imparando a relazionarsi in modo nuovo, vivendo quest’emergenza Covid. Gli aspetti organizzativi sono procedure difficili da cambiare, ma diverso è il discorso umano. Si cambierà in meglio perché una esperienza umana così drammatica e intensa come questa che stiamo vivendo potrebbe portare a un miglioramento del modo di porsi guardando al concreto, alle cose importanti. Sono ottimista in questo senso, l’emergenza è servita a far maturare molto le persone.

Allo stesso tempo aiuterà a migliorare anche la macchina organizzativa?

Ce lo auguriamo tutti.

E i soldi promessi dal governo per la sanità pubblica?

Secondo me è necessario che negli ambiti decisionali ci siano dei tecnici veri: meno politica in sanità e più tecnici che affianchino il politico per evitare di sprecare questi soldi. Solo chi lavora sul campo capisce di cosa c’è bisogno, invece oggi c’è distacco tra chi decide e chi sta nella realtà. A Roma, nelle sedi governative e ministeriali, vorrei vedere tecnici competenti e affidabili.

(Paolo Vites)

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