Il suo mondo era in dissoluzione; non c’erano elementi confortanti per alimentare la speranza di un cambiamento dello status quo (cambiamento che per lui coincideva con un ritorno al passato); la lupa dominava e irretiva sempre più i cuori, le coscienze dei suoi contemporanei che “vivevano male”; la Chiesa in crisi ad Avignone, il Papa ridotto a fare il cappellano del re di Francia, che sfacciatamente presumeva di sostituire i propri gigli all’aquila imperiale; e il sogno di una ritrovata unità sotto il vessillo di quell’aquila dalla storia tanto gloriosa, l’aveva capito, ormai, era destinato a rimanere un sogno; e poi la condizione dell’esiliato, mitigata certo dalla benevolenza e dalla stima di Guido Novello da Polenta a Ravenna, ma pur sempre esacerbata dall’affronto fattogli dai fiorentini, con la spina in cuore di un ritorno in patria che lui stesso ormai riteneva impossibile, in modo definitivo.



È così che Dante Alighieri iniziò l’anno 1321, l’ultimo della sua vita, quello che andiamo a celebrare. Se si guardava intorno, non aveva proprio niente di che rallegrarsi, niente per dirsi “andrà tutto bene”. In questo assomiglia molto alla nostra condizione all’inizio del 2021: crisi pandemica che non si sa se o quando finirà, con un virus per il quale è stato trovato un vaccino, ma del quale si scoprono già varianti che non promettono niente di buono; la scienza (la “di speranza fontana vivace” dell’uomo contemporaneo), mai così goffa e impacciata; una crisi economica che lascia a terra la gente, che toglie il lavoro, le prospettive; in crisi la politica, a tutti i livelli, nazionale, internazionale, mondiale… Il caos che regna sovrano, esattamente come doveva regnare sovrano agli occhi di Dante.



Per lui la situazione doveva essere ancor più complicata. Egli, come ha scritto Auerbach, era evidentemente “l’uomo più saggio e di volontà più forte del suo tempo, che, secondo il principio platonico, era chiamato a dominare; ma egli non dominò e invece visse povero e solitario”. E il pane altrui continuava a sapere di sale; e continuava ad essere un peso enorme, proprio per l’alta autocoscienza della propria grandezza, salire e scendere le scale dei suoi protettori. La poesia, certo, gli era di consolazione. Era impegnato a rifinire le due egloghe che aveva composto rispondendo allo stimolo di un suo ammiratore, Giovanni di Antonio del Virgilio. E soprattutto aveva il Paradiso da completare, stava portando a termine quel suo “sacro poema” che in qualche modo avrebbe rettificato la disarmonia della sorte.



Nell’agosto sarebbe andato a Venezia, inviato come ambasciatore da Guido Novello. Bisognava scongiurare la guerra tra Ravenna e i veneziani. Contrasse la malaria sulla via del ritorno. Morì verso il tramonto del 13 settembre.

Quello che mi commuove di quest’uomo è la sua fedeltà ad un grande ideale. La sua speranza contro ogni speranza, il suo instancabile guardare la luce e il bene, mentre tutto intorno era tenebra e male. Tutto sommato avrebbe avuto ogni ragione per definirsi “figlio del caos”, come secoli dopo farà Luigi Pirandello, tracciando il bilancio della propria vita. Il disordine aveva dominato, le cose erano andate a rovescio: l’altezza d’ingegno non sufficientemente riconosciuta; la giustizia scomparsa; la riconoscenza pure. Ma lui sperava, alzava gli occhi al cielo.

Nel primo canto del Paradiso fa dire a Beatrice qualcosa che davvero confligge con la sua misera esperienza umana e storica: “Le cose tutte quante/ hanno ordine tra loro, e questo è forma/ che l’universo a Dio fa simigliante./ Qui veggion l’alte creature l’orma/ de l’etterno valore…”. Dante ribadisce che la realtà è “ordinata”, è etimologicamente un “cosmo”, un ordine, e questo perché Dio stesso vi ha posto la sua impronta. Il creato è cera che porta impresso il sigillo di Dio. Le “alte creature”, gli uomini e gli angeli, grazie a quest’ordine riescono a intravedere la presenza della potenza di Dio, che tutto vede e provvede e non lascia mai sola la propria creatura.

Nonostante tutto, quello scolastico–cristiano è un mondo nel quale si può davvero sperare che “tutto andrà bene” e non in forza di una pura predisposizione soggettiva ad un ottimismo senza ragioni, ma semplicemente perché è la verità. Il fluire misterioso delle cose nel “gran mar de l’essere” è destinato ad un porto sicuro e buono. L’istinto che fa muovere il creato, è come una corda “che ciò che scocca drizza in segno lieto”. L’avventura si conclude, insomma, con quell’aggettivo, “lieto”, che allarga il cuore, che gli dà un respiro enorme, una prospettiva buona, anzi, gloriosa.

La vita umana è una commedia, non una tragedia. È così che, nonostante tutto quello che gli era accaduto e che vedeva intorno a sé, Dante guardava le cose. In forza di una fede schietta e radicata poteva dire che la sua speranza era “uno attender certo/ de la gloria futura, il qual produce/ grazia divina e precedente merto” (Paradiso, XXV, 64–69).

Qualunque fosse il suo stato d’animo contingente, il volto desolato e desolante che il mondo doveva avere ai suoi occhi, Dante iniziò quel 1321 cercando l’ordine, con lo sguardo rivolto alla luce, certo della grazia divina che non lo abbandonava mai; in parte datagli gratis, in parte ottenuta grazie ai meriti di una vita vissuta con dignità, con fortezza, avendo fatto al meglio tutto quello che poteva fare. Iniziava con un “attender certo”.

E così nacque, probabilmente in quei primi sei mesi dell’anno, quell’immagine stupenda che si trova negli ultimi versi del canto XXXIII del Paradiso. Scrutando nell’intimità di Dio egli vedeva tutto il creato (“ciò che per l’universo si squaderna”) come “legato con amore in un volume”. La realtà tutta non era solo ordinata, ma stretta da un nodo amoroso, l’abbraccio di Dio. Tutto quello che accadeva, e che era, aveva il segreto di essere partorito e custodito dall’Amore. Fin qui, fino a questa incredibile rivelazione arrivò il suo genio illuminato dalla grazia.

La sua commovente testimonianza, questo segreto buono e felice che Dante aveva da comunicare al mondo e ai posteri, mi sembra un ottimo viatico per tutti noi, all’inizio del nostro difficile 2021.