E ci siamo ancora una volta: la liturgia dell’8 marzo, festa della donna, prima e dopo questa fatidica data riesplode e quest’anno ed è all’insegna della ricostruzione, in mano a un presidente del Consiglio che ha in Parlamento, tra le altre, le questioni che sul versante sociale ed economico coinvolgono le italiane. 



In verità ci auguravamo un cambio di governance da parte del Presidente internazionale avvezzo a trattare con figure femminili ai vertici del potere al Fmi, alla Bce, alla Commissione Ue, all’Ocse, al Dipartimento del Tesoro Usa, ma ben presto abbiamo preso atto che anche la cosiddetta “rinascita”, che per definizione dovrebbe almeno contemplare la presenza di entrambi “i genitori dell’evento”, è in mano ai soli “padri” che ne detengono sia le risorse che il potere di governance. Così succede che anche il primo significativo atto di sostegno alla desertificazione economica e sociale della pandemia, cambi nome, da ristori a sostegno, ma non verso le italiane. 



Le risorse che sono stanziate per far fronte alla nuova ondata (ma non ancora ben declinate e quantificate) per le italiane lavoratrici riguardano il rinnovo dei congedi pagati al 50% per i genitori con figli minori di 14 anni a fronte della nuova chiusura delle scuole, quantificati in 200 milioni, e la possibilità di passaggio al lavoro agile per genitori di studenti oltre i 16 anni malati di Covid per il periodo Dad o quarantena. Punto. Per adesso così è.

Chiaro che siamo ben consapevoli che ci sono 12 miliardi di contributi a fondo perduto a favore di imprese e partite Iva dei 32 miliardi di deficit in più autorizzati con l’ultimo scostamento di bilancio di dicembre. Ma questa somma non sarà sufficiente per far fronte all’erogazione dei nuovi sostegni e a tutte le nuove spese, compresa la proroga della cassa integrazione e i costi per la sanità che la pandemia richiede. Per avere più fondi a disposizione si tratta di chiedere a breve un altro sforamento del deficit.



I piedi delle donne sono saldamente piantati a terra. Per quanto riguarda il Recovery fund registriamo un’iniziativa internazionale della Parlamentare Ue Alexandra Geese per chiedere alla Commissione e al Consiglio europeo che almeno la metà del Fondo per la ripresa e la ricostruzione sia destinata alle donne. In Italia le adesioni sono state moltissime e tutte allineate per rendere più giusto e a misura di donne e uomini il nostro Paese, attraverso alcune priorità: la realizzazione e il rafforzamento delle infrastrutture sociali per la cura della prima infanzia (asili nido) e quella familiare in generale (anziani e non autosufficienti); il rilancio dell’occupazione femminile, anche attraverso politiche fiscali che favoriscano l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro; il sostegno all’imprenditoria femminile, soprattutto attraverso un accesso al credito garantito; la messa in campo di misure efficaci ed efficienti per la diminuzione del gender pay gap. 

Mario Draghi nel suo intervento programmatico in Parlamento ha parlato di “farisaico rispetto delle quote”, ma la questione femminile riguarda anche la sistematica marginalità delle donne nei luoghi e processi in cui si prendono le decisioni che incidono sulla vita e le chances loro e di tutti. Sembra quasi che il Presidente sottovaluti che esistono discriminazioni di genere, a parità di competenze, sia nel mercato del lavoro, sia nella selezione delle persone che vanno a occupare posizioni di potere decisionale, che nulla hanno a che fare con la famiglia. Parità di condizioni competitive significa anche non discriminazione, e mantenere unite, nello stesso ministero peraltro senza portafoglio, le pari opportunità e la famiglia non è un buon segno, pur nell’incredibile moltiplicazione di ministeri come quello sulla disabilità nel quale convivono molteplici discriminazioni.

Il Recovery plan italiano è poi un mistero buffo: tre bozze, l’ultima approvata dal cdm il 12 gennaio dal Consiglio dei ministri, in cui la “Parità di genere” scompare dal titolo sia della Missione 5, rinominata “Inclusione e coesione”, sia della sua Componente specifica, M5C1; anzi, viene trasferita la posta di bilancio “Piano nidi e servizi prima infanzia” alla Missione “Istruzione e ricerca” e il Pnrr non dedica alla promozione della donna nel mercato del lavoro risorse significative. A parte i 400 milioni ancora allocati all’imprenditorialità femminile, rimane per le dipendenti solo una voce esplicita, affiancata e mettendo insieme le «nuove assunzioni di donne e di giovani e la fiscalità di vantaggio per il lavoro al Sud», già previste esattamente da almeno una decina di anni attraverso le Leggi di bilancio, non allocandovi neppure un euro dei 196 miliardi totali del Pnrr, né dei quasi 210 miliardi previsti per progetti “in essere” e “nuovi” che provengono dagli altri fondi e in particolare dal Fondo sociale europeo. Infatti, tale voce si finanzia per 4,47 miliardi unicamente con il React Eu, cioè con fondi europei che si aggiungono ai programmi già vigenti di coesione e sono pensati dall’Ue per aiutare le regioni più danneggiate dalla pandemia, dunque a copertura di misure urgenti di breve termine nel Mezzogiorno, non di strategie di lungo corso per l’ammodernamento strutturale del Paese. 

Mancano così le risorse per l’occupazione femminile, per le difficoltà di accesso e di carriera, per la forzata inattività, i grandi differenziali retributivi, la segregazione, la discriminazione. Vi sono genericamente annunciate risorse per la famiglia (Family act) e i nidi. Basterebbe una mera redistribuzione dell’occupazione a favore delle donne per accrescere la produttività italiana, ma il nuovo coronavirus ha comportato quest’anno una redistribuzione in senso opposto. Nel recupero di breve e lungo periodo che l’Italia deve realizzare con il Piano bisognerebbe dunque puntare ad aumentare l’occupazione totale e quella femminile in particolare. Non serve trattare il problema della parità di genere come fosse prevalentemente una questione di equità e di coesione, è prima di tutto un tema di ammodernamento del Paese, e per le italiane ritenere che i problemi nel mercato del lavoro vengano particolarmente dal lato dell’offerta, dall’insufficienza delle competenze o dalla mancanza di tempo libero per carenza di nidi, asili o strutture sociali di cura, è fortemente riduttivo perché in Italia il principale problema è la domanda di lavoro, in ragione della segregazione orizzontale e verticale e della discriminazione che non consente a tantissime donne di entrare e rimanere nel mercato del lavoro.

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