Nell’Italia del dopoguerra si diffuse una vulgata trasversale: quella del “Tutti a casa”, dal titolo del famoso film di Luigi Comencini, con una massa di soldati italiani ben felice di sbandarsi e di mettere fine alla guerra. Questa visione delle forze armate ha fatto comodo a più parti politiche: alle sinistre, che intendevano smantellare i miti fondanti della nazione (monarchia ed esercito) esaltando il movimento partigiano; alla Democrazia Cristiana, ansiosa di affrancare l’Italia da una tradizione militare assai ingombrante; e agli stessi responsabili della disfatta, che non persero l’occasione per scaricare sul popolo italiano il peso delle proprie viltà e dei propri errori. La realtà è un’altra ed è quella di decine di migliaia di eroi che vinsero l’abitudine all’obbedienza cieca per tornare a combattere.
Già: combattere contro chi? Contro coloro che erano stati alleati fino a poche ore prima, e spesso ciò accadde con un accanimento che, durante la guerra, raramente vi fu in modo così spontaneo. A quanti ridicolizzano la Resistenza e, ancora di più, quella dei militari va ricordato che i caduti e i fucilati, tra settembre e ottobre del 1943, furono ben 20mila. Tutti uomini che non erano saliti sul carro del vincitore. Le motivazioni? L’aggressione tedesca in primo luogo, giustificabile per motivi militari e anche giuridici, anche se la spietatezza dimostrata dai tedeschi scavò un solco incolmabile tra gli ex alleati. In secondo luogo riemerse una tradizione risorgimentale che vedeva nell’austriaco (e nel tedesco in genere) il secolare nemico dell’Italia: una tradizione che aveva raggiunto il proprio apogeo nella Grande guerra e che Mussolini aveva colpevolmente ignorato schierandosi con la Germania.
Va aggiunto, tuttavia, che lo smarrimento dovuto alla mancanza di ordini disarmò gran parte di ufficiali e soldati. Mentre re, ministri e generali scappavano a Pescara, già la sera dell’8 ci fu chi scelse di resistere anche in condizioni disperate. I primi atti di resistenza furono compiuti quella sera stessa. Nella stazione ferroviaria di Nizza, nella Francia occupata, il sottotenente Salvatore Bono ingaggiò un conflitto a fuoco con due ufficiali tedeschi, abbattendone uno e uccidendo il secondo a mani nude. Rimasto con quattro soldati, difese la stazione in una lotta disperata, sparando da un ripostiglio in cui si era rifugiato. Durante lo scontro tolse la sicura a una bomba a mano e stava per lanciarla quando venne ferito e la granata gli esplose in mano, mutilandolo e rendendolo cieco. Solo così poté essere catturato, sopravvivendo alle spaventose ferite subìte.
Sempre quella sera, molto più lontano, a Boccoli di Conforti, in provincia di Salerno, i tedeschi fecero irruzione nell’ufficio del comandante della 222esima divisione costiera. Il generale si chiamava don Ferrante Gonzaga del Vodice, figlio di Maurizio, l’eroico comandante della 53esima divisione durante la Grande guerra. Minacciato dall’ufficiale tedesco che gli imponeva di consegnare le armi, il generale rispose: “Un Gonzaga non si arrende mai!” ed estrasse la pistola, venendo falciato da una raffica di mitra.
Altri episodi di resistenza vi furono a Mondragone, in Campania, a Saluzzo, a Cremona a Modena, Parma e Sassuolo. A Piombino il generale Fortunato Perni fece sparare con le artiglierie costiere, affondando un cacciatorpediniere tedesco, sei motozattere e un piroscafo, arrendendosi dopo aver inflitto pesanti perdite e solo dopo ordine espresso del suo diretto superiore, Cesare Maria De Vecchi, quadrumviro del fascismo. Il 9 settembre la corazzata Roma, ammiraglia della nostra flotta, veniva fatta saltare in aria da una bomba volante tedesca al largo della Maddalena in Sardegna. Perivano l’ammiraglio Bergamini e 1.352 uomini di equipaggio.
L’episodio di resistenza più coordinata fu la battaglia di Roma, dove l’esercito aveva concentrato alcune delle sue divisioni meglio armate e organizzate. La difesa della Capitale era affidata soprattutto al Corpo motocorazzato, al comando del generale Carboni: delle sue divisioni l’“Ariete”, per quanto sotto organico, era ben addestrata e combattiva, la “Piave” e la “Granatieri di Sardegna” erano in perfetta efficienza, mentre non si poteva fare affidamento sulla divisione corazzata “Centauro” (già “Littorio”) composta da ex camicie nere. Oltre a queste unità vi era il XVII corpo d’armata con la debole “Piacenza” e il corpo d’armata di Roma con la logora divisione “Sassari” e altri reparti della divisione “Re” e “Lupi di Toscana”. Ed è lecito pensare che questo corpo d’armata avrebbe potuto resistere ai tedeschi con successo se fosse stato affiancato dai paracadutisti americani dell’82esimo come era stato previsto nell’operazione Giant two, annullata come abbiamo visto nella precedente puntata.
La sera dell’8 settembre la III divisione Panzegrenadieren e la II divisione paracadutisti iniziarono a muoversi con la consueta, letale efficienza, incapsulando e disarmando la “Piacenza” e la 220esima divisione costiera, attaccando a tradimento i “Granatieri di Sardegna” e compiendo puntate offensive in tutte le direzioni. A nord la III Panzegrenadieren cercò di prendere di sorpresa l’“Ariete”, ma la divisione era pronta al combattimento, comandata da Raffaele Cadorna, figlio del maresciallo d’Italia Luigi. Alle quattro di notte del 9 settembre il sottotenente Ettore Rosso si faceva esplodere con tutte le mine che aveva iniziato a posare eliminando la testa della colonna tedesca. Nel corso del 9 settembre la III divisione tedesca cercò invano di passare ma gli uomini dell’“Ariete”, manovrando superbamente le proprie artiglierie, inflissero dure perdite ai tedeschi che furono respinti.
La battaglia di Roma continuò per tutto il 9 mentre il comandante del corpo motocorazzato, quel generale Carboni di cui abbiamo già visto l’operato, cercava di allontanarsi dalla città per raggiungere il re a Pescara. Intanto i suoi uomini combattevano e morivano alla Magliana e all’Acquacetosa, mettendo in seria difficoltà i tedeschi. A quel punto Carboni tornò nella capitale e trattò la resa delle proprie truppe delegando al proprio subordinato la forma dell’atto. Il 10 settembre ci fu l’ultimo atto della resistenza a Porta San Paolo con i carristi del reggimento “Lancieri di Montebello” a resistere accanitamente, supportati da centinaia di cittadini. Tra questi spicca la figura di Raffele Persichetti, romano, docente di storia dell’arte al Liceo Visconti, antifascista da sempre ma rimasto invalido per ferita durante la campagna di Grecia.
C’è una foto di quel giorno che lo ritrae in giacchetta accanto ai granatieri: un combattente improbabile, ma colmo di uno spirito che, oggi, è più raro di un diamante. Lui è là sulla destra, alto, prestante e con un cuore impavido. Indossò le giberne e a mezzogiorno cominciò a sparare e a dirigere il fuoco dei suoi uomini nei pressi della piramide di Caio Cestio. In una pausa dei combattimenti riuscì a telefonare alla madre da un bar, rassicurandola e mettendo una mano sul microfono per non farle sentire il fracasso della sparatoria. Ma la madre udì comunque gli spari e attese invano il figlio. La mattina del 13, la sua salma venne identificata. Era stato colpito alla testa e gli era stata risparmiata la vergogna della resa ai tedeschi, trattata da Giacomo Carboni e, per necessità, dall’anziano maresciallo Enrico Caviglia, che in un qualche modo era stato chiamato a rappresentare il re.
La battaglia di Roma era conclusa. Molti militari, come il generale Dardano Fenulli, vicecomandante dell’Ariete, passarono alla clandestinità per continuare quella lotta per cui tanti italiani erano già stati uccisi. Sulle cifre non vi è mai stata chiarezza. Quelle ufficiali, probabilmente al ribasso, parlano di 171 morti fra i militari e di 241 civili: altri, in modo più realistico, elevano tale cifra a 414 militari e 156 civili. Eppure Ruggero Zangrandi, sia pure avvertendo dell’approssimazione delle proprie ricerche, parla di mille militari e 500 civili. Era l’inizio della nuova Italia.
(2 – fine)
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