Nel piano da 196 miliardi che il nostro paese intende avanzare alla Ue, la sanità trova solo un angolino: nel Recovery plan italiano, infatti, ci sono solo 9 miliardi, il 4,3% delle risorse del programma europeo Next Generation Eu. Una cifra assai lontana dai 68 miliardi del piano per il rilancio della sanità che aveva in mente il ministro Roberto Speranza e che prevedeva fondi per interventi di edilizia sanitaria e per un potenziamento della medicina territoriale, a cui così andranno appena 4 miliardi. Per come è strutturato adesso il fondo destinato dal Recovery Plan alla salute ci sono 4,8 miliardi per l’assistenza di prossimità e la telemedicina, e 4,2 miliardi per innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria. Con quali criteri bisognerà scegliere come e dove investire questi 9 miliardi? Saremo costretti a ridimensionare i progetti e gli obiettivi? “Prima di poter dire dove e come si spendono questi miliardi – osserva Federico Spandonaro, professore aggregato di Economia sanitaria presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e presidente di Crea Sanità (Centro per la ricerca economica applicata in sanità) – bisogna rispondere a una domanda: questo sistema sanitario ci piace così o tra 5-10 anni dovrà essere diverso?”.
La sua risposta?
Per tanti anni ci siamo cullati nell’illusione che spendiamo poco e per di più abbiamo tanta salute e un’alta aspettativa di vita. Tutto sommato, e la politica ha sposato in toto questa posizione, perché cambiare qualcosa? Invece con l’emergenza Covid abbiamo scoperto che questo era un equilibrio instabile e probabilmente non vero.
Sta di fatto che 9 miliardi sono davvero pochi, non crede?
Non so se possiamo dire che sono pochi o tanti. Prima bisognerebbe capire come vogliamo utilizzare questi soldi.
Non basta considerare la distanza siderale dai 68 miliardi chiesti dal piano Speranza?
Certo, rispetto ai 68 miliardi chiesti dal ministro Speranza, di cui 34 destinati all’edilizia sanitaria, sono pochissimi. Ma il fatto che si parla indifferentemente di 68 o di 9 miliardi mi fa pensare che non ci sia ancora la necessaria chiarezza su quale dovrà essere l’uso di queste risorse.
Secondo lei?
Innanzitutto va detto che non sono soldi che possono essere sprecati. Quindi occorrerebbe partire da una ricognizione di quel che c’è da fare e poi decidere quanti soldi servono.
Nella sanità le cose da fare e aggiustare non mancano, tanto che lo stesso ministro Speranza ha presentato un piano ambizioso, annunciando che finalmente si sarebbe tornati a investire nella salute degli italiani.
Sì, ma al di là di soldi e priorità, c’è soprattutto un problema di metodo.
Vale a dire?
È nostra abitudine, ma questo non succede solo in Italia, distribuire le risorse con un meccanismo top-down, dettato dall’ansia di mettere le risorse all’interno dei capitoli di spesa, lasciando invece in sospeso gli utilizzi concreti. Mai come questa volta bisognerebbe invertire il processo, secondo una logica bottom-up: prima si raccolgono le richieste di investimenti ritenuti utili e poi si dovrebbe ricorrere a livello centrale a un algoritmo, chiaro e trasparente, di misurazione dei rendimenti degli investimenti.
Per esempio?
Premesso che è sempre meglio avere più risorse che meno risorse, questi soldi, che tra l’altro non sono regalati, non si possono destinare alla spesa corrente. Quindi, se si decide di utilizzarli per ingrandire gli ospedali, dobbiamo sapere che poi servirà nuovo personale, che richiederà maggiori costi correnti che a loro volta creeranno nuovo debito. Essendo appena riusciti a diminuire il disavanzo sanitario, non possiamo correre il rischio di ritrovarci nel giro di qualche anno con un nuovo deficit.
Come evitare questo rischio?
La vera priorità, e oggi a maggior ragione, è stabilire un criterio con cui misurare il rendimento sociale ed economico-finanziario di questi investimenti. Devono essere investimenti che aumentano l’efficienza del sistema così che ne sia garantita la sostenibilità. Faccio un esempio: se costruisco in un certo modo un nuovo ospedale, devo valutare di quanto diminuisce il costo di gestione. E ovviamente devono esserci anche i benefici in termini di salute dei cittadini.
Va da sé che nella sanità il primo principio dovrebbe essere, appunto, produrre salute…
Vero, ma qui si tratta anche di produrre efficienza, altrimenti gli investimenti genereranno inevitabilmente un incremento dei costi, che alla fine non saranno sostenibili nel medio periodo.
I tagli alla sanità degli ultimi anni dove hanno lasciato le ferite maggiori?
Su questo devo riconoscere che purtroppo in Italia c’è poca memoria storica.
Perché dice questo?
Fino a un giorno prima dell’insorgere dell’emergenza Covid per la politica italiana non era affatto vero che c’erano poche risorse, anzi c’era un disavanzo determinato dalle inefficienze. Su questo assioma si sono costruiti 15 anni di spending review della politica sanitaria. Adesso improvvisamente scopriamo che invece non si trattava di inefficienza, ma di tagli ai servizi. In realtà il nostro è un sistema sanitario che costa il 35-40% in meno della media europea e oltre il 50% di quello tedesco, il che significa che alla fine non stiamo sprecando così tanto.
Dove sta allora il problema?
Il problema è che un’analisi seria di dove abbiamo tagliato non è mai stata fatta. Sicuramente abbiamo tagliato sulla retribuzione dei professionisti, tanto è vero che registriamo una forte emigrazione verso l’estero. È un nodo che andrebbe sciolto, perché è diseconomico spendere per la formazione del personale, a cui poi offriamo condizioni economiche sfavorevoli tali da costringerli ad andare a lavorare all’estero.
Oltre al personale medico e infermieristico, abbiamo ospedali da riqualificare, apparecchiature diagnostiche da svecchiare e una medicina territoriale da potenziare. Da dove partire?
Non basta più aggiustare quello che finora non ha funzionato. Bisogna partire da un’idea di quello che dovrà essere tra 5-10 il Servizio sanitario nazionale, e non da quello che è stato ieri o che è ancora oggi. Sono tutte priorità che non possono essere trascurate. Ricostruire gli ospedali uguali a prima non ha più alcun senso: nei prossimi anni serviranno strutture molto più flessibili, in grado di adattarsi facilmente e velocemente al cambiamento dei bisogni. Ovviamente abbiamo pure urgente bisogno di attrezzature più moderne: in Italia sono vecchie, ma anche troppe, quindi bisogna razionalizzarne al meglio l’utilizzo. Infine, non c’è dubbio che manca completamente un modello di medicina territoriale: il sistema basato sull’assistenza primaria che fa da filtro e poi sull’ospedale non funziona più.
L’emergenza Covid ha fatto emergere un sistema sanitario in grande difficoltà. Come andrebbe ridisegnato il Ssn in vista delle sfide future?
Oltre alla parola flessibilità, che oggi deve sostituire il concetto di resilienza, prima di tutto bisogna ripensare seriamente al rapporto tra ospedale e territorio, creando un’integrazione più stretta, mentre noi negli ultimi anni abbiamo fatto di tutto per separarli. Bisogna poi implementare l’apporto della tecnologia, facendo sì che la classe medica sia formata a utilizzarla, e questo esige un cambiamento dei modelli organizzativi. Da ultimo, bisogna ribaltare la logica di un sistema tutto incentrato sull’offerta: abbiamo sempre pensato a creare posti letto e ambulatori, e i bisogni dei cittadini si dovevano adattare. Viceversa bisogna partire dai bisogni: gli studi dei medici di base, per esempio, devono essere attrezzati per fare visite su prenotazione. L’organizzazione non può più essere in funzione del sistema, ma dei cittadini.
Se i miliardi del Recovery plan restano 9, diventa imprescindibile fare ricorso ai 36-37 miliardi del Mes sanitario?
Se vogliamo riqualificare tutti gli ospedali italiani, la risposta è sì, perché 9 miliardi non bastano di certo. Però è altrettanto vero che nessuno sa dettagliare in concreto la lista della spesa che sarebbe necessaria: sui macrosistemi le idee chiare non mancano, ma quando si scende nel concreto, sulle esigenze del territorio, spesso escono le proposte più strane. Se non c’è una vision di sistema chiara, non bastano le parole d’ordine, come prossimità. Che cosa si intende per prossimità? Siamo così sicuri che valga la pena spendere soldi per realizzare le Case della salute?
(Marco Biscella)