In un suo recente “Caffè” (sabato 7 ottobre, ndr) Gramellini ha raccontato di suo padre, al quale confessò, da ragazzo, di aver preso un brutto voto in matematica. Era angosciato. Il padre, invece, tranquillo, lo invitò a recuperare subito, senza farsi tanti problemi. Gramellini commenta che oggi un padre – in un caso simile – sarebbe portato a consolare, rassicurare, proteggere il ragazzo, “pronto ad accollarsi la sua ansia pur di non togliergli l’illusione che la vita sia una pianura”. Assolutamente condivisibile.
Vorrei però continuare, potendo, l’osservazione di Gramellini. Perché il padre si era comportato in tal modo? Perché oggi noi padri ci comporteremmo invece in modo diverso? Ecco, Gramellini spinge l’acceleratore sui “come” ci si comporta. A me interessano di più i “perché”. Scriveva Nietzsche: “Chi ha un perché per vivere può sopportare quasi ogni come”. Credo infatti che il “come ci si comporta” derivi da “chi si è”. In questo aspetto c’è il segreto nascosto nell’atteggiamento sereno del padre di Gramellini, e di tanti altri padri come il suo.
Noi, adulti di oggi, cerchiamo di chiudere i figli in una bolla di protezione dai “mali” esterni non perché assumiamo dei comportamenti o delle strategie educative sbagliate, ma innanzitutto perché noi stessi non abbiamo un senso, un riferimento, un aiuto che sostenga la nostra esistenza. Siamo noi adulti per primi che, in ogni circostanza difficile, cadiamo su un “vuoto”, invece di poterci appoggiare a un “pieno”. Di cosa si tratta? Cos’è questo “pieno” di cui anche il padre di Gramellini faceva parte e che lo rendeva sereno e sicuro di fronte ai dubbi del figlio?
Non erano certamente diversi modi di comportamento. Se mai questi erano conseguenza di una diversa coscienza di vita. Al milione e mezzo di ragazzi riuniti a Lisbona, la scorsa estate Papa Francesco diceva: “Adesso guardiamo indietro, a tutto quello che abbiamo ricevuto: tutto questo ha predisposto il nostro cuore alla gioia. Tutti, se guardiamo indietro, abbiamo persone che sono state un raggio di luce per la nostra vita: genitori, nonni, amici, sacerdoti, religiosi, catechisti, animatori, maestri. Loro sono come le radici della nostra gioia. Ora facciamo un attimo di silenzio, e ciascuno pensi a coloro che ci hanno dato qualcosa nella vita, che sono come le radici della gioia. Avete trovato? Avete trovato dei volti, delle storie? La gioia che è venuta attraverso quelle radici è quella che noi dobbiamo dare, perché noi abbiamo radici di gioia. E allo stesso modo noi possiamo essere radici di gioia per gli altri. Non si tratta di portare una gioia passeggera, una gioia del momento; si tratta di portare una gioia che crea radici”.
Ecco, ciò che faceva stare tranquilli i nostri padri di fronte alle avversità era il fatto di partecipare, di far parte, di appartenere a delle radici, a un popolo “autorevole” perché portatore di “gioia”, cioè di un significato e di una positività della vita. Noi adulti oggi abbiamo perso quelle radici. Sappiamo richiamarci moralisticamente dei comportamenti, ma non sappiamo più da dove essi derivino.
La questione allora non è di autoflagellarci perché le nostre reazioni verso i giovani sono sbagliate. Lo sappiamo. Grazie Crepet, grazie Gramellini, grazie a voi tutti che ci ricordate le giuste regole. La questione è rivivere le radici, l’humus da cui tali atteggiamenti corretti derivavano. Non basta rifarsi i discorsi, ridirci “ma una volta non era così”, “un tempo si stava meglio”.
Non basta ridirci le radici, bisogna riviverle in noi, ri-appartenere a quelle tradizioni rifacendole nuove in noi stessi. Rivivere luoghi, comunità, amicizie, confronti, rapporti in cui quelle radici rinascano a vita nuova. Scriveva Goethe: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo per possederlo”. Il problema più grave oggi per l’adulto è la solitudine. Le famiglie sono sole e non hanno luoghi di confronto e di sostegno. L’adulto non vive rapporti che possano aiutarlo nel cammino con i figli. Non ci sono le comunità di partito, i circoli, gli incontri fra famiglie in parrocchia, i gruppi dei movimenti. Si è soli. E su questa solitudine aleggiano come ghigliottine i moniti dei nuovi profeti terapeuti che dicono: “Sbagliate!”, che ci fanno sentire merde e riempiono i teatri e le televisioni come star del cinema, davanti a noi che li seguiamo piangendo sulle nostre inadeguatezze.
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