A ventitré anni Michelangelo Buonarroti scolpiva nel marmo la sua Pietà: una madre, la Madre, intenta ad accarezzare il corpo esanime del Figlio appena deposto dalla Croce. Cesare (nome di fantasia), è un bambino moldavo, residente a Padova, che a nove anni ha scolpito, nella carne sofferente, la sua pietà: ha accudito il padre morente fino all’ultimo, affrontando prove da adulto senza far valere sconti sui suoi diritti di bambino. Visionario come Michelangelo con il marmo, pietoso come Enea col padre Anchise sulle spalle, fanciullo com’è il cuore di chi si è appena affacciato alla vita. Menefreghista su ciò che un certo tipo di mondo già gli fa sospettare: il provare pietà è segnaletica di debolezza.



Un altro Cesare, il Pavese-scrittore, è pronto a sostenerlo nella sua battaglia: “Farsi amare per pietà, quando l’amore nasce solo dall’ammirazione, è un’idea molto degna di pietà”. L’accudire, il vestire, l’imboccare, il lavare: verbi che sono tipici dell’amore materno, paterno. Dell’amore adulto. Verbi che il piccolo Cesare, di origine moldava, ha declinato in versione bambina. Il suo sogno è diventare astronauta: viaggiare altissimo, lo spazio come abitazione, una navicella come cavallo da corsa. Nel frattempo sta dimostrando di conoscere l’addestramento migliore: senza le basi, scordatevi le altezze. Volare senz’aver imparato a camminare sarà rischiare di cadere male.



La sua storia ha (ri)svegliato il vento della carità: un tam-tam d’affetto, tanti protagonisti, ha indetto una colletta per aiutarlo a pagare il funerale di papà. Per aiutarlo a non smarrire, domani che andrà nello spazio, questa splendida pietà con la quale ha iniziato a scrutare la terra, quel piccolo lembo di terra santa che è la storia personale di ognuno. Chissà se un giorno leggerà qualche pagina di Charles Dickens, lui che ama camminare nello spazio: “Dev’essere orribile per un uomo levare gli occhi al cielo mentre moriva assiderato, e non scorgere né aiuto né pietà in tutta quella moltitudine scintillante”.



Ai bambini, nell’intento di far apprezzare loro l’amore, li si avvisa anzitempo che i genitori sanno aspettare i tempi di maturazione dei loro figli lungo la vita. Ogni tanto – al capezzale di un padre morente, davanti alla galera per un padre detenuto, nell’attesa del ritorno di un padre scomparso – ai grandi viene ricordata l’altra faccia dell’avviso noto: che ci saranno giorni nei quali, per lo stesso amore, certi figli saranno capaci di attendere la maturazione dei loro padri. La guarigione, il ritorno. Non è poesia.

È una pagina di educazione civica gigantesca quella di Cesare, condivisa nei giorni in cui questa materia ritrova diritto di cittadinanza tra i banchi di scuola l’anno prossimo: amare oggi la propria famiglia, la prima forma di società con la quale ci confrontiamo, è impietosirsi con nobiltà dello Stato dopodomani. Curare gli affetti primordiali è celebrare l’ecumenismo umano, nell’attesa che un giorno fiorisca quello religioso. Scolpire la Pietà nella carne è ricordare a chi ci passerà dinanzi, magari inginocchiandosi, che non si è mai troppo piccoli per cominciare a diventar grandi. Date a Cesare quello che è di Cesare: la carne, non il marmo.