Uno dei grandi nodi di interesse dei prodotti nazionali di Netflix è spesso di tipo produttivo, ovvero di come riescano a rendere internazionale e global (lo confermano i dati di visione in giro per il mondo) storie molto locali, che riescano a sfruttare le caratteristiche geografiche e culturali dei luoghi. Nel caso di A Classic Horror Story, il film di Roberto De Feo e Paolo Strippoli sulla piattaforma da qualche giorno, all’uso non turistico della Calabria (ricostruita in parte in Puglia e Lazio) si aggiunge il folklore locale, talmente radicato nel territorio da essere l’inizio leggendario di mafia e ‘Ndrangheta.
Il film racconta di un gruppo di ragazzi uniti dal carpooling che stanno andando in Calabria per vari motivi. Un incidente stradale li porta vicino a una misteriosa casa in mezzo a una radura boschiva, nella quale vedranno compiersi rituali orrendi nel nome di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, tre fratelli cavalieri che sembrano dominare – proprio come la mafia – la popolazione locale.
Assieme a Milo Tissone, David Bellini e Lucio Besana, i registi compongono una sorta di riflessione linguistica sull’horror contemporaneo, giocando sulle citazioni e gli stereotipi del genere e cercando di avvicinarli sempre più alle chiavi contemporanee per declinare il genere. Partono da Faccia di cuoio (Non aprite quella porta) e tutto il filone del redneck horror, in cui i protagonisti si trovano in paesini sperduti in balia di violentissimi bifolchi per poi arrivare a costeggiare i lidi del folk, dei film in cui l’orrore nasce dalle tradizioni ancestrali e dai riti, come in The Wicker Man o Midsommar espressamente citato nella scena del pranzo collettivo.
La svolta folk è interessante perché aumenta la complessità del racconto, lo stratifica e ne lega le necessità narrative alle sue radici mitiche, mostra l’orrore su cui si fondano intere società ed è un tocco curioso – per il mercato italiano – in un film strutturato sui cliché, che come molto horror postmoderno chiede allo spettatore di giocare a riconoscere le citazioni, i prestiti e i rimandi come fosse la risposta italiana a Quella casa nel bosco, aggiornato all’epoca dei social e delle piattaforme streaming. De Feo e Strippoli non si limitano solo a citare, ma vogliono usare quelle citazioni per costruire un discorso, per esempio sottolineando la differenza tra i riti “mafiosi” nel segno del sacrificio mortifero e quelli nordici – a cui fanno riferimento i film citati – che invece parlano di rinascita, cercano quindi una complessità di fondo pur senza fuggire dalle regole del gioco filmico.
Allora, perché il finale meta-critico? Perché dopo il post-moderno anche il post-post-moderno? Perché ridurre tutto il film allo sfogo contro il pubblico e la critica, i giochini testuali e le messe in abisso, in cui i “creatori” sono livellati sul solito cinismo per cui “lo spettacolo deve continuare” e gli spettatori la solita massa informe di pecore? Perché i due registi non hanno creduto nella loro storia e nella forma che hanno scelto di dargli anziché complicarla di continuo perdendo quindi il filo del racconto e lasciando più di una perplessità sullo stesso sviluppo drammaturgico?
A Classic Horror Story lavora benissimo sui valori produttivi e le capacità cinematografiche dei registi, stimola benissimo la curiosità di chi guarda grazie all’uso di ambienti e contesti, alle musiche perfette, ma poi vuole la sorpresa a ogni costo, anziché raggiungere le estreme conseguenze delle premesse poste preferisce scartare di lato, alla profondità della storia preferisce la superficie del contemporaneo. E lì resta, purtroppo, senza scalfirla mai, dando l’impressione di un’occasione sprecata: alla morale della visione si sostituisce il moralismo del cinema.
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