Il prossimo 8 settembre, Salah Abdeslam, l’unico terrorista sopravvissuto dopo la serie di attentati che insanguinarono Parigi il 13 novembre 2015, sarà alla sbarra: e per la Francia, come per tutte le famiglie delle innumerevoli vittime, si riapre una ferita che si spera almeno la verità processuale e le sentenze possano in parte lenire. Come si ricorda, Abdeslam era uno dei kamikaze che avrebbe dovuto morire nell’attacco sferrato al Bataclan, il noto club parigini in cui quel venerdì sera si esibiva il gruppo statunitense degli “Eagles of Death Metal”: di quell’attentato, che aveva causato almeno 129 morti e oltre 300 feriti, solo nello storico locale si contarono 89 vittime Salah fu l’unico dei sette attentatori che non riuscì ad azionare la propria cintura esplosiva e a farsi saltare in aria come “martire” dell’ISIS, venendo poi catturato dalla teste di cuoio.



Già dichiarato colpevole nel 2018 da un Tribunale di Bruxelles per la sparatoria avvenuta nella capitale belga nel 2016 (condanna a vent’anni di carcere), ora Salah Abdeslam dovrà chiarire ai giudici francesi molti misteri: uno su tutti quello che riguarda la sua cintura esplosiva e se sia diventato un “terrorista mancato” per una fortuita casualità o se dietro c’è anche altro. Come sottolinea un pezzo a tema su “il Venerdì” di Repubblica, l’ex attentatore verrà giudicato nel Palazzo vicino alla Ile de la Cité, dove furono alla sbarra ben più illustri antecedenti quali Maria Antonietta, Charles Baudelaire ed Emile Zola. Perché il 31enne belga di origini marocchine non si fece esplodere? Un cambio di piano o un provvidenziale ripensamento prima di causare altri morti? A queste domande, alle quali spesso in passato si era sottratto, dovrà rispondere.



SALAH ABDESLAM, NELLA TESTA DEL “KAMIKAZE MANCATO”

Etty Mansour, apprezzata giornalista nonché scrittrice francese, aveva dato alle stampe un bel libro, “Convoyeur de la mort”, in cui provava ad entrare nella testa e nel vissuto di Abdeslam, dalle banlieu belghe di Molenbeek in cui era cresciuto all’affiliazione al decaduto califfato islamico in Iraq. Del suo cerchio di conoscenze, oramai quasi nessuno vuol più sentire parlare di lui e tanto meno avere rapporti: temoNO che l’intera comunità islamica possa essere messa in quel calderone di odio contro i cittadini arabi nel Vecchio Continente. E per questo anche per la Mansour, la testa di Abdeslam resta un mistero come il motivo per cui si sia radicalizzato tagliando “tutti i ponti con i suoi simili”.



La storia di Salah parla di una famiglia tutto sommato normale e poi di un diploma di perito elettrotecnico: poi le prime esperienze lavorative e cominciano i problemi e il ragazzo viene fagocitato nei gorghi delle banlieu che sono ben noti (spaccio, piccoli furti e altri espedienti al limite della legalità). La cosa che colpisce dalla lettura del libro della Mansour e dalle testimonianze di chi lo conosce, è che da ragazzino Salah non parlava nemmeno arabo e del Corano non conosceva quasi nulla. Cosa è accaduto? Come si è passati dalla ricerca del denaro e di modelli di vita iper-pubblicizzati sui social, tipica anche di molti giovani delle periferie italiane, al radicalismo religioso? Il movente sono comunque i soldi: la promessa di benefit, stuzzicare lavolontà di “revanchismo” grazie all’Islam in quei giovani dimenticati dallo Stato, i primi furti di documenti d’identità ignaro che sarebbero serviti per pianificare attentati terroristici.

IL RECLUTAMENTO NELLE BANLIEU: “MA SI E’ RADICALIZZATO DOPO L’ARRESTO E ORA…”

Da lì parte il processo di radicalizzazione: non solo vite da piccoli “Scarface” ma anche la promessa dell’immortalità quale martire. E così le giornate passano tra visione di video propagandistici dell’ISIS, addestramento nel compiere furti mirati (tutto ciò che è utile alla logistica, piccoli esplosivi), fino al Bataclan nel 2015: i fatti di Parigi sono noti a tutti oramai, ma quello che si scopre nel libro della giornalista francese è che il locale della capitale, e non solo, è visto come il simbolo dell’edonismo di quel Paese, una sorta di metropoli del peccato che va punita. Quel giorno Abdeslam fece da autista per gli attentatori e poi avrebbe dovuto immolarsi anche lui: la sua versione, immutata da allora, è che la cintura abbia fatto cilecca e che era suo desiderio morire per la “causa” dell’ISIS. Il dubbio degli inquirenti è che possa essere accaduto altro e che Salah sia a conoscenza di fatti che dovrebbero essere riferiti anche agli inquirenti.

Il fatto che oggi continui a dire che la cintura sia sia inceppata (unico fra i sette attentatori) potrebbe essere il tentativo di nascondere la codardia -se vista dal lato dei suoi mandanti, o la provvidenziale scelta, dalla prospettiva delle vittime- di compiere l’atto per cui era stato indottrinato e addestrato. Il paradosso è che, da quanto si legge nelle cronache francesi, la vera radicalizzazione Abdeslam l’ha avuta in carcere, facendo diventare granitiche le certezze che prima vacillavano e nonostante lo attenda una vita da trascorrere dietro le sbarre: nemmeno la parvenza di una finta redenzione per avere sconti di pena, o collaborare con la giustizia. Anche in questo risiede il mistero dello “chauffer” dei terroristi di Parigi: una “maschera” per dimenticare la codardia? Questa è la tesi della Mansour che tuttavia ricorda come le prigioni siano tra i primi incubatori di soldati della jihad e che il vero problema, come chi vuole risolvere i problemi con soluzioni tanto al chilo, non è Salah in sé, ma l’assenza dello Stato sia nelle banlieu che negli istituti di pena, dove peraltro è più facile fare proselitismo tra i detenuti. Quelli che un giorno ne usciranno saranno i soggetti da tenere d’occhio in vista di una nuova ondata di attentati in Europa, specie dopo il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan o si può e si deve intervenire prima?