In tempi di coronvirus non pochi pensano che sia stato eccessivo il ricorso alle misure alternative a favore dei detenuti. Potremmo tutti fare il nome di politici che hanno rimproverato i giudici – lo Stato, in ultima analisi – per aver mandato a casa troppi carcerati: secondo questi, per ridurre l’emergenza sovraffollamento si sarebbe caduti nell’eccesso opposto, quello del buonismo.
In questo contesto deflagra come una bomba l’intervista con cui Gherardo Colombo rilancia il suo vecchio libro Perdono responsabile, che in occasione della ripubblicazione viene aggiornato. Tesi principale del saggio, che all’epoca fece tanto discutere, è che il carcere vada abolito. Proprio così. Avete letto bene. Non si tratta di renderlo migliore o più rispettoso della dignità della persona, ma proprio di toglierlo mezzo. E l’aspetto del proteggere la società dalle persone pericolose, il diritto che tutti abbiamo di essere tutelati da chi ci può fare del male, che fine fa? Secondo Colombo, bisognerebbe inventarsi “un luogo a parte” che però dovrebbe consentire di non perdere i contatti con gli affetti o di perdere altri diritti fondamentali.
Sarebbero tesi da utopia giovanilista che non interesserebbero a nessuno se non provenissero da un signore che, in trent’anni di magistratura, è stato l’uomo simbolo di Mani Pulite e il protagonista di inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come ad esempio quelle della Loggia P2, il delitto Ambrosoli o i fondi neri dell’Iri.
Che le carceri – anche in Italia – siano molto lontane dal rispettare tutti quei requisiti che le rendono pienamente umane, è qualcosa che l’opinione pubblica conosce perfettamente. Ma sostenere che il carcere sia in se stesso un male da evitare, mi sembra una posizione ideologica: ci vedo la stessa ideologia che ho visto agire, a volte, negli anni di Tangentopoli, la stessa ideologia che è lontana dalla verità quanto la menzogna.
Pieno rispetto per l’uomo Colombo, che in crisi di coscienza con il proprio lavoro di giudice (“ho smesso di fare il pm per non dover più giudicare”) ha da tempo lasciato il proprio lavoro di magistrato per andare, peraltro, non a vivere sotto i ponti ma a ricoprire ruoli di prestigio. Fatico però a trattenere l’indignazione per questa posizione, perché essa ignora la vera condizione esistenziale del detenuto. Ribadito che ancora molti passi devono essere compiuti per rendere dignitose le carceri (e primo tra essi è la soppressione dell’ergastolo), i cappellani delle carceri sanno perfettamente che essenziale per la riabilitazione del detenuto è l’atteggiamento con cui questi affronta la giustezza – ovvero la verità – della sua pena carceraria. “Io sono in carcere perché ho sbagliato, ed è giusto che stia qui”. Questo passo è necessario e consente a un numero non trascurabile di persone di uscire dal carcere riabilitate. Colombo dice che il 68% dei carcerati torna a delinquere, ed è vero: ma non dice che torna a delinquere solo il 4% dei carcerati che trovano lavoro. La recidiva cioè non è colpa del carcere – o quanto meno non solo – ma è colpa della società che non accoglie chi ha giustamente espiato. E, in estremo, anche la posizione di Gherardo Colombo va annoverata fra quelle di chi non riconosce al carcere la possibilità di essere un percorso redentivo.
La tradizione garantista che ci ha trasmesso Beccaria dice che di fronte ad un reato lo Stato deve rieducare, certamente, ma lo devo fare attraverso la punizione. Che non è vendetta, come tra l’altro dice Colombo, ma è retribuzione che permette di riacquistare dignità.
Io, nella mia piccolissima esperienza di volontario nelle carceri ex art. 17, l’ho potuto toccare con mano. Solo comprendendo il male fatto si può tornare pienamente “dignificati” come esseri umani. Solo vedere punito, nella propria vita, un reato commesso consente, a chi ha danneggiato, di accedere al perdono in primo luogo agli occhi di se stesso. Il perdono è frutto di grazia ma anche di giustizia.
Paradossalmente, lo stiamo sperimentando tutti in questo tempo di Covid-19. La reclusione è limitante per tanti aspetti, ma educa: educa ad apprezzare la libertà propria ed altrui, educa a riflettere su se stessi. Educa a desiderare l’incontro con l’altro, come dimensione essenziale, evitando però lo scontro, il dissidio.
Quando si è fatto del male, un tempo di privazione della libertà è uno spazio per ricostruirsi, per rimettere al centro le dimensioni fondamentali con se stessi e con il prossimo. Peccato che Colombo non lo sappia.