Battaglia di dame. La prima mano della partita tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein si è giocata sul salario minimo. La segretaria del Pd, fortunata in amore e sfortunata nel gioco, non era mai riuscita ad assicurarsi un piatto, fino a quando, in una mano, le è stato servito un buon punto, in grado di competere di per sé, senza cambiare le altre carte. Elly ha deciso allora di tentare un bluff. Aveva delle buone probabilità di vincere anche se l’avversaria fosse andata a vedere. Fuor di metafora: dopo il disastro elettorale in Molise, è maturata l’intesa, tra i partner di quell’avventura, sulla proposta del salario minimo legale.



Di per sé la questione era di un certo rilievo, poteva contare – con qualche forzatura – su di una Direttiva europea e soprattutto interessava (grazie all’importo previsto di 9 euro lordi all’ora) alcuni milioni di lavoratori. Valeva quindi la pena di giocare la partita. Se anche fosse stata sconfitta, Elly avrebbe avuto il conforto dei tanti perdigiorno che si accalcavano intorno al tavolo di gioco. In cuor suo, la segretaria del Pd sapeva che l’avversaria sarebbe andata a vedere. Da tempo, le carte le giravano bene, poi la sua posta era quasi intatta, mentre quella di Elly era quasi azzerata, tanto da doverne chiedere un’altra che le era stata negata perché non era garantita solvibilità. Anzi, a dire il vero, Elly quasi desiderava che il suo quasi-bluff fosse scoperto e battuto con un punto più alto, proprio per rinfacciare – coram populo – la fortuna sfacciata di Giorgia. E riscuotere la solidarietà degli astanti, che peraltro non avevano simpatia per l’avversaria di Elly. Chi bluffa deve esercitare una pressione psicologica sugli altri giocatori.



Non sappiamo se Elly abbia intuito il punto debole di Giorgia o se abbia solo provato a indovinare. Fatto sta, che la presidente del Consiglio, dopo qualche tergiversare, ha pronunciato l’unica parola detta da un grande attore del “muto” come Buster Keaton, in un film sonoro: “Passo”. Tutti si aspettavano che Giorgia andasse a vedere o addirittura che rilanciasse perché aveva capito il bluff dell’avversaria. In concreto, che la maggioranza in Commissione o in Aula chiedesse la votazione dell’emendamento soppressivo e chiudesse così la partita. Sarebbe stata una linea di condotta logica, poiché nessuno poteva pretendere che fosse l’opposizione, che ne aveva preteso la calendarizzazione da molti ritenuta prematura se non provocatoria, a far approvare una sua legge su di un tema a cui maggioranza si era dichiarata contraria. La destra, invece, ha “passato la mano”, chiedendo il rinvio della discussione di 60 giorni per avere il tempo di formulare una propria proposta e non accorgendosi di fare la figura di uno scolaretto che si presenta impreparato all’interrogazione.



Solo bocciando il testo delle opposizioni, il Governo sarebbe stato in grado di presentare una proposta sulla tutela delle retribuzioni conforme alla risoluzione votata dalla Camera in dicembre, contraria, con buoni argomenti, al salario minimo legale e favorevole a misure di carattere contrattuale. Ora la maggioranza si è lasciata trascinare sul terreno del salario minimo e si è assunta l’onere, quando riprenderà la discussione, di dire la verità sui 9 euro all’ora ovvero che si tratta di un importo insostenibile. Così si sottoporrà alla critica di voler diminuire il salario dei lavoratori.

Su quali elementi ha giocato – più o meno consapevolmente – Elly Schlein? In prevalenza su di uno solo: ha risvegliato l’Es populista di gran parte della maggioranza, che, alla prima prova seria di un confronto con la demagogia, non se la è sentita di tirare diritto su di una linea di coerenza. Le minoranze hanno messo la testa sotto la mannaia, ma la maggioranza non ha avuto il coraggio di usarla. Il rinvio a settembre non è ancora stato deciso. Il M5S sembra insistere per il voto. Ma nel frattempo, dopo questa prova generale, la maggioranza è attesa intorno al tavolo dove si gioca un’altra partita: l’abolizione del Reddito di cittadinanza per gli occupabili e lo sostituzione con l’assegno di inclusione, ridotto e limitato a 12 mesi.

Gli effetti sono già avvertiti tramite sms da parte dell’Inps che ha comunicato a più di 160mila beneficiari che la prestazione è arrivata a scadenza. La sinistra politica e sindacale è già entrata in agitazione; ma la differenza tra questa campagna e quella del salario minimo è sostanziale. In questo secondo caso era in ballo un’aspettativa (in termini giuridici si poterebbe parlare di “lucro cessante”); nella vicenda del RdC viene meno per tante famiglie un’entrata sicura (ovvero è un “danno emergente”). I giornali vicini al Governo esultano (“è finita la pacchia!”) e possono contare sul mancato appeal che questa misura assistenziale ha raccolto in un parte consistente dell’opinione pubblica (diversamente dal salario minimo che sarebbe stato riconosciuto a lavoratori che non stanno seduti sul divano di casa, ma che ritengono di essere sottopagati). Il fatto è che, nel nuovo regime, sono coinvolte persone in carne e ossa, che magari non si rassegnano alle nuove norme. E che – diciamoci la verità – non hanno avuto sentore, finora, dei corsi di formazione e di avviamento al lavoro propedeutici all’assegno di inclusione.

Come reagiranno il Governo e la maggioranza se i movimenti di protesta prendessero piede, spalleggiati dai partiti di opposizione e dai sindacati? Meloni ha compreso che, a questo tavolo, sono in gioco dei voti. Lo ha dimostrato Giuseppe Conte il 25 settembre, nei suffragi ottenuti nel Mezzogiorno. Probabilmente del No al salario minimo non ci sarebbero state conseguenze, per i partiti di maggioranza, nelle prossime elezioni europee. Con il Rdc è tutto un altro paio di maniche. Non dare, non è come togliere.

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