La legge sulle Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, la 194/78, venne approvata il 22 maggio 1978 da un ampio schieramento parlamentare. L’articolo 1 dice esattamente: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.
Sono affermazioni forti e cariche di valore, che nel tempo però si sono diluite fino a modificare perfino il nome della legge che per tutti è diventata “la legge italiana sull’aborto”. Vale la pena ricordare però che la legge 194 prevede che una donna possa abortire esclusivamente in ospedale, ma lascia alle Regioni la possibilità di organizzarsi diversamente, quindi quanto deciso dalla giunta umbra di Donatella Tesei è pienamente legale.
Il fatto però è che la precedente amministrazione regionale di centrosinistra, guidata da Catiuscia Marini, aveva previsto la possibilità di abortire, grazie alla pillola Ru486, entro la settima settimana di gravidanza, chiedendo agli ospedali di effettuare la prestazione in day hospital o tramite assistenza domiciliare. Quanto fatto dalla Marini era in linea con quanto avviene in molti paesi europei, dove l’aborto viene praticato somministrando la Ru486 senza bisogno di ricovero. Nello specifico, negli Stati del Nord il 90% delle interruzioni di gravidanza avviene in questa modalità e in Francia il 60%. In Italia, invece, si registra solo un 18%, nonostante le associazioni di ginecologi siano più volte intervenute affermando che si tratti della pratica meno pericolosa.
L’ultimo atto dell’amministrazione Tesei ha di base abrogato tutto questo.
In cosa consiste il cosiddetto aborto farmacologico
La decisione presa dalla governatrice dell’Umbria, Donatella Tesei, di cancellare la delibera regionale che permetteva di ricorrere alla Ru486 con il day hospital, è giunta a sorpresa. In realtà la giunta Tesei non proibisce l’aborto farmacologico con la Ru486, ma impone che venga effettuato in ospedale, per motivi di sicurezza nella donna che abortisce. Ossia per tutelare la salute della donna davanti ad alcuni possibili rischi che si possono presentare con la Ru486 e che in alcuni casi hanno anche provocato la morte delle donne che ne avevano fatto uso. Il ricovero ospedaliero per l’aborto farmacologico implica tre giorni di ricovero.
La Ru486 è un antiprogestinico di sintesi utilizzato come farmaco, in associazione con una prostaglandina, per indurre l’interruzione della gravidanza per via farmacologica, entro i primi 49 giorni di amenorrea. Ossia entro le prime sette settimane dall’inizio della gravidanza. Il farmaco, che si assume per via orale, è stato introdotto in Italia nel 2009, dopo una lunga battaglia, ed è commercializzato in Italia e in Francia con il nome Mifegyne, mentre negli Stati Uniti col nome di Mifeprex. Il trattamento consiste nella somministrazione di due diverse compresse: la prima ha come principio attivo l’anti-progesterone vero e proprio (Ru486 o mifepristone, 600 mg), e si prende subito, per via orale; la seconda contiene una prostaglandina (misoprostolo, 400 mg) che, assunta 24-48 ore dopo, stimola ulteriormente le contrazioni uterine, provocando l’espulsione dei tessuti embrionali.
In osservanza a quanto raccomandato dal Consiglio superiore di sanità, la stragrande maggioranza delle Regioni italiane prevede l’effettuazione della procedura farmacologica in regime di ricovero ordinario. Per questo motivo, nonché per difficoltà organizzative, solo poche strutture offrono la possibilità di scegliere tra aborto medico e aborto chirurgico; ma se nel 2013 solo il 9,7% delle donne italiane aveva potuto fare ricorso al metodo farmacologico, cinque anni dopo nel 2018 il numero era raddoppiato e si parla di un 18% di donne che hanno fatto ricorso a questo tipo di aborto.
Il farmaco, in uso da vent’anni nella maggior parte dei Paesi, controllato con tecniche di “post marketing surveillance”, non sembra avere gravi effetti collaterali, anche se è evidente che ci possono essere rischi concreti, come forti emorragie. Non è stata però dimostrata l’eventualità di decessi strettamente correlati al farmaco, anche se per molto tempo questa eventualità è stata tra le principali ragioni per uno stretto monitoraggio delle donne che ricorrevano a questo tipo di aborto.
La delibera della Tesei, pur essendo del tutto in linea non solo con la legge ma anche con il parere del Consiglio superiore di sanità, ha sollevato un forte dibattito non solo in Umbria, ma in tutto il Paese. Molte donne, non solo umbre, hanno protestato e sollevato il problema chiedendo che venisse ripristinata la delibera precedente voluta dalla giunta Marini. Rivendicano una maggiore libertà personale in una decisione che ritengono riguardi esclusivamente la loro vita e la loro salute: se la legge consente di abortire, non si vede perché non si possa abortire per via farmacologica e non solo per via chirurgica. E non si possa abortire a casa e non solo in ospedale. Infatti, se l’aborto chirurgico può essere fatto solo in day hospital, per cui chi abortisce può tranquillamente tornare a casa in serata, l’aborto farmacologico, che come è noto avviene in due tempi, obbliga la donna, nella decisione presa dalla giunta Tesei, a rimanere in ospedale tre giorni.
L’iniziativa del ministero della Salute
Il ministro della Salute, Roberto Speranza, davanti alle proteste e alle polemiche sollevate da più parti in Italia ha formalmente richiesto un parere al Consiglio superiore di sanità, alla luce delle più recenti evidenze scientifiche, in merito all’interruzione volontaria di gravidanza con il metodo farmacologico. L’obiettivo è capire se la salute della donna sia sufficientemente tutelata anche con la somministrazione della Ru486 in day hospital o se invece siano realmente necessari tre giorni di ricovero in ospedale, come stabiliva l’ultimo parere in materia
Il ministro evidentemente ha ben presente che le linee guida del ministero della Sanità emanate nel 2010, quando la Ru486 arrivò in Italia, consigliavano i tre giorni di ricovero. Attualmente in molte Regioni, dalla Toscana all’Emilia, dal Lazio alla Liguria, l’aborto per via farmacologica può essere fatto in day hospital.
Ma se il ministro intende spostare il centro del dibattito sul piano strettamente scientifico, alla ricerca di evidenze che propongano una sufficiente garanzia per la donna che decide di abortire per via farmacologica, nel centrosinistra, tra LeU, Pd e M5s le cose hanno assunto, come era immaginabile, la fisionomia di un deciso scontro politico.
“La decisione della Regione Umbria di cancellare la delibera del centrosinistra che permetteva di effettuare l’aborto farmacologico con la Ru486 senza il ricovero in ospedale è una grave lesione dei diritti delle donne, mascherata dietro una inesistente esigenza sanitaria”. Secondo alcuni consiglieri regionali del Partito democratico la delibera Tesei complica “in maniera strumentale l’accesso all’interruzione di gravidanza farmacologica”, aumenta le spese del Ssn e, in epoca Covid, allunga le degenze.
Ricordano inoltre come ad aprile le società scientifiche di ginecologia e ostetricia si fossero dette favorevoli a una maggiore diffusione dell’aborto farmacologico, proprio a causa dell’emergenza sanitaria in corso.
Conclusione
Non è il modo in cui si abortisce che cambia la natura delle cose. Ma è l’aborto in sé stesso: se ci si pone nell’ottica del principio di autodeterminazione, per cui una donna si ritiene libera di disporre di se stessa a prescindere dal “chi è” della creatura che vive dentro di lei, qualunque tipo di aborto per lei sarà la stessa cosa. Ma non se ci si pone nell’ottica di chi considera che l’embrione è già un soggetto con un suo preciso diritto a vivere e ad essere rispettato perché è uno di noi.
Dal momento che tutti siamo stati embrioni in qualche fase della nostra vita, allora nessun tipo di aborto si giustifica. Bene ha fatto il ministro a chiedere un ulteriore parere al Consiglio superiore di sanità per valutare i rischi connessi all’aborto farmacologico alla luce delle più recenti ricerche scientifiche. È una garanzia per la salute della donna, perché lo stesso aborto farmacologico non è indenne da rischi, soprattutto se effettuato in casa propria e senza sorveglianza medica.
Ma le ragioni a favore o contro l’aborto sono di natura etica e non farmacologica. L’unica cosa che la scienza può dirci e ci ha già detto, è che nel codice genetico dell’embrione c’è già tutto l’uomo che sarà domani.