Cosa vi è di nuovo in un editoriale del New York Times che inneggia all’aborto come capostipite delle libertà individuali, che invita a proteggere la libertà di scelta delle donne e che considera il diritto di scegliere sul proprio corpo ben più importante della vita di un feto in gravidanza? Nulla, in effetti sembra di sentire un dibattito tra pro-choice e pro-life in qualsiasi delle ultime decadi negli Stati Uniti. Eppure il risvolto di partenza dato dall’articolo di Charles M.Blow sul NYT vede una piccola ma significativa “novità” nella ‘liturgia’ pro-aborto che il mondo liberal propugna da anni (e che vede aumentare la propria carica mediatica dopo la legge approvata dal Texas contro l’aborto dopo 6 settimane).
«Se gli uomini avessero bisogno dell’aborto lo farebbero subito. Se fossero stati loro a rimanere incinta, non avrebbero mai permesso di sentirsi giudicati sulla scelta. Gli uomini non lo sopporterebbero. Neanche le donne dovrebbero»: l’affondo del New York Times punta dritto a convincere i lettori quanto sia giusto astenersi dal commentare qualsiasi scelta fatta dalla donna prima delle 24 settimane di gravidanza. Il motivo? Quello è il limite fissato per ritenere un feto bambino a tutti gli effetti, ovvero che possa sopravvivere anche fuori dall’utero.
L’ABORTO È UN DIRITTO TOUT COURT?
L’articolo del NYT prende spunto dalla testimonianza di tre donne membri del Congresso che si sono battute in parlamento per attaccare la legge Abbott in Texas, ribadendo invece la necessità di riformare e aggiornare la codificazione di “Roe v. Wade” (la storica legge sull’aborto in America) per proteggerlo dagli assalti repubblicani. «Gli uomini non si sono mai trovati di fronte alla scelta sull’aborto e mai lo faranno»: seppur il feto accendi quantomeno la domanda umanissima sul “cosa è vita”, per il quotidiano liberal non serve porsi le questioni religiose e filosofiche sulla gravidanza, occorre solo difendere il diritto della donna di porre fine alla vita prima delle 24 settimane. «I loro (delle donne, ndr) corpi diventano un campo di battaglia. In quale fase della gravidanza sono ancora la persona che ha il controllo e a che punto devono sottomettersi ad essere un vaso per una “persona” che cresce dentro di loro? In quale fase viene eliminata la scelta?», affonda il NYT. In gioco c’è tanto, quasi tutto della ambigua cultura occidentale contemporanea: da un lato sperticarsi per i diritti di qualsiasi minoranza per non ammettere alcun sopruso e scelta altrui sui propri convincimenti/identità. Dall’altro però, dare il diritto a qualcuno di decidere sulla pelle di un’altra vita (la più indifesa al mondo in quanto ancora in grembo): discorsi da antiche rivalse pro-life vs pro-choice? Forse, ma qualcosa resta di ineludibile nella vicenda-aborto: cosa è vita, cosa è diritto, fino a quando si parla di “libertà” e quando si comincia a parlare di “sopruso”. E, ancora di più, se è giustissimo che non si possa criminalizzare una donna per la scelta che fa (quasi sempre dolorosa, non accompagnata, non compresa e tutt’altro che semplice), è possibile invece arrivare a criminalizzare chi ritiene che quel feto minuscolo sia una semplice vita? Negli Usa (e non solo) è quello che sta avvenendo.