Continuano in Polonia le manifestazioni dei movimenti femministi contro la sentenza della Corte Costituzionale che definisce legale l’aborto solo nel caso di stupro, incesto o grave rischio per la vita o la salute della madre. I nostri media hanno dato ampio risalto alla questione e, quando non esplicitamente critici della sentenza, si sono comunque concentrati sulle dichiarazioni degli organizzatori delle manifestazioni. Come detto da una di loro al Fatto Quotidiano: “Ma qui, nella vecchia cattolica Polonia, la lotta per aborto è diventata il simbolo della libertà”. La frase è riportata in grassetto a sottolineare, suppongo in positivo, che la libertà coincide con il poter uccidere a propria discrezione la creatura che si porta in grembo.
Una posizione coerente, dato che si ritiene scontata l’esistenza di un “diritto all’aborto”, il diritto cioè della donna a disporre del feto come se fosse una proprietà individuale, che lo Stato non può che difendere incondizionatamente. Sembrano passati secoli da quando da noi si discuteva dell’aborto come un fatto doloroso, ma che doveva essere ammesso in determinati casi, sia pure con le dovute cautele. Colpisce che nelle dichiarazioni femministe e nella maggior parte dei commenti non si tenga conto, anzi neppure si menzioni, il diritto alla vita del feto.
Sono ormai diventate antiquate anche le discussioni di quando egli cessi di essere un “grumo di cellule” per diventare un essere umano: ora si parla tranquillamente di aborto fino al momento della nascita. Viene alla mente il diritto di vita e di morte del pater familias dell’antico diritto romano, sia pure invertito: qui è la donna che dispone, mentre l’uomo, che malgrado le incombenti innovazioni è tuttora parte nella procreazione, non ha alcuna voce in capitolo.
Rimane invece la vecchia obiezione che rendendo illegale l’aborto si favorisce la clandestinità e, secondo Il Fatto, già prima della sentenza 120.000 donne polacche erano costrette ad andare all’estero dato le restrizioni in Patria. Una creatura umana, soprattutto un figlio, dovrebbe essere più importante del danaro, in particolare per chi si definisce “progressista”. Al contrario, queste prese di posizione ricordano chi si lamenta della imposizione fiscale e vorrebbe vederla eliminata, invece di essere costretto a portare i propri soldi all’estero.
In molti commenti viene sottolineato che la Corte Costituzionale ha preso questa decisione per adempiere al volere del partito al governo, di destra, sovranista e definito spesso “ultracattolico”. Sarebbe cioè da estremisti cattolici, non da cattolici e basta, opporsi al “diritto di aborto”. Forse a chi usa questa espressione sfugge che i cattolici non hanno come guida Joe Biden, cattolico ma solo Presidente degli Stati Uniti, ma Papa Francesco. E non credo vi siano dubbi sulla posizione di netta condanna dell’aborto da parte del Papa.
Particolarmente criticata è l’esclusione dell’aborto per malformazioni o malattie gravi del feto e, nello scorso novembre, è intervenuto anche il Parlamento europeo con una risoluzione in cui si afferma che rendere illegale per queste motivazioni “mette a rischio la salute e la vita delle donne”, tanto più che questi casi rappresentano il 96% delle interruzioni di gravidanza legali in Polonia nel 2019. La risoluzione sostiene anche che le leggi restrittive sull’aborto violano i diritti umani delle donne, in linea con quanto sostenuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e che l’aborto è un servizio sanitario essenziale. La conclusione è che in Polonia lo Stato di diritto è al collasso e che l’Unione Europea deve sollecitamente intervenire.
Non solo quindi per le femministe, ma anche per il Parlamento Europeo l’aborto è un diritto assoluto della donna, che non può essere messo in discussione senza intaccare il concetto stesso di libertà. Alla faccia della sempre conclamata difesa dei deboli, la creatura portata in grembo è solo un accidente, la cui sorte è nelle mani della donna che ne può disporre in totale autonomia. Il concetto di procreazione e quindi di madre e padre non entrano per nulla nel discorso, forse per coerenza con le disposizioni su Genitore A e B. In compenso si profila sullo sfondo l’espandersi dell’utero in affitto, a disposizione anche delle varie forme di LGBT. Stranamente in questi casi i diritti della madre naturale, pardon, della donna che ha concretamente generato il bambino sono trascurati, meglio, vengono ridotti agli aspetti finanziari, magari con diritto alla riconsegna del “prodotto”, se non all’altezza delle aspettative.
Eppure, alla fine, la realtà ha il suo doloroso sopravvento. Quel “diritto” si trasforma in una atroce uccisione di un essere vivente indifeso e la donna non potrà fare a meno di provare un dolore profondo, che potrà mettere a tacere solo mettendo a tacere la verità di se stessa.