Il rapporto tra minori e giustizia è uno dei temi ricorrenti di questi ultimi anni, a tal punto che in questa legislatura sono state istituite ben due commissioni d’inchiesta, una sul Forteto e l’altra su Bibbiano; una ha come scenario l’area di Scandicci, l’altra l’area della Val d’Enza.
Situazioni diverse per tante e tante ragioni, ma con un punto in comune chiaro e netto: la grave sofferenza di cui sono state vittime molte famiglie, con genitori ingiustamente accusati di una serie di abusi sui figli, a cui è seguito il rapido allontanamento dei figli, dati in affido sia a case famiglia che a famiglie affidatarie.
Ieri, su Avvenire, si parlava di 80mila genitori innocenti, un numero incredibile, che impone una seria riflessione non solo sul caso singolo, che va preso in esame con la massima delicatezza e prudenza, sapendo coniugare tempestività e competenza; ma anche sulle leggi, sulle procedure e sui processi a cui si attengono magistrati e servizi sociali nella loro attuazione.
Ben venga quindi la creazione di una rete di associazioni di madri e padri a cui sono stati sottratti ingiustamente i figli minori, perché se è vero che gli abusi in famiglia esistono, è ancor più vero che servono riforme radicali per evitare errori giudiziari, che creano danni ancora peggiori.
Su un tema così controverso c’è una premessa facilmente condivisibile: senza un grave disagio non ci sarebbe allontanamento dalla famiglia; ma non è semplice capire in cosa consista questo disagio, le sue manifestazioni e la loro intensità. La legge infatti stabilisce che il minore abbia il diritto di crescere ed essere educato nella propria famiglia e, pertanto, le istituzioni sono tenute a sostenere le famiglie in difficoltà. Le condizioni di indigenza dei genitori non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore a crescere nella propria famiglia; non la povertà materiale quindi può giustificare l’allontanamento dei minori dalla famiglia, ma la povertà educativa e morale, la violenza, compresa la violenza sessuale, che crea l’impossibilità di crescere serenamente, sviluppando talenti e capacità, valori e sentimenti.
L’allontanamento del minore dalla sua famiglia dovrebbe rappresentare una garanzia per il raggiungimento del suo “bene”, interesse prioritario che anche le istituzioni debbono custodire e perseguire; e dovrebbe essere una forma di protezione giuridica e sociale. La legge stabilisce infatti che è possibile allontanare un minore solo quando tutti gli interventi di prevenzione, sostegno e cura messi in opera dai servizi sociali degli enti locali nei confronti di nuclei familiari a “rischio”, non hanno raggiunto il loro obiettivo. Per esempio, quando c’è una situazione di degrado, malnutrizione e incuria, o di sostanziale disinteresse per la salute dei figli. Oppure quando il minore è sottoposto a violenza e maltrattamenti fisici e psichici, specialmente in casi di tossicodipendenza, alcolismo, prostituzione eccetera. O ancora, quando il minore viene strumentalizzato all’interno di un gravissimo conflitto tra i genitori e i suoi bisogni psicologici, fisici e morali non sono adeguatamente soddisfatti.
Ovviamente ogni situazione va valutata caso per caso, collegialmente a livello istituzionale, in modo da evitare le decisioni emergenziali, che hanno una drammaticità difficile da assorbire sia per il bambino che per la famiglia.
Davanti ad alcuni fatti che negli ultimi anni hanno colpito molto l’opinione pubblica, scandalizzando alcuni e facendo soffrire i protagonisti delle vicende in questione, l’esperienza ha mostrato tre cose gravi, in forte contrasto con lo spirito e con la lettera della norma. La decisione di allontanamento del minore e la sua collocazione in una famiglia affidataria o in una casa famiglia non è stata presa in modo collegiale; non è stato elaborato un piano di sostegno alla famiglia per rimuovere le cause dell’allontanamento e facilitare il reinserimento del minore in famiglia; ma soprattutto non era stata svolta a monte nessuna azione di prevenzione e di intervento precoce per evitare lo stesso allontanamento.
Se il rischio per il minore non è grave, dovrebbero essere avviati dei percorsi di sostegno alla famiglia; quando invece la situazione è grave, i servizi sociali sono obbligati alla segnalazione all’autorità giudiziaria e, in casi estremi, viene predisposto il collocamento urgente in ambiente protetto. Nell’ultimo caso, ai sensi dell’articolo 403 del Codice civile, “quando il minore si trova in una condizione di grave pericolo per la propria integrità fisica e psichica la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”.
I servizi sociali, in qualità di pubblica autorità e quali referenti privilegiati del minore, possono intervenire senza avvalersi degli organi di polizia (se non necessari) e senza previa autorizzazione del giudice tutelare, dandone comunicazione al pubblico ministero per i minorenni. Non bisogna dimenticare però che lo scopo di un allontanamento del minore è quello di tutelare i suoi diritti e recuperare, se possibile, con il sostegno dei servizi sociali e sanitari, la piena responsabilità genitoriale. Per questo l’allontanamento del minore va accompagnato da un’opportuna e approfondita indagine psicologica e sociale nel suo esclusivo interesse; a lui vanno garantiti, in ogni fase i diritti di informazione, di ascolto e la possibilità di esprimere la sua opinione.
È una delle principali responsabilità affidate agli assistenti sociali che lavorano nei servizi territoriali. Sappiamo però che non sempre le cose vanno in questo modo. La cronaca ci consegna casi di allontanamento brusco, con il ricorso alle forze dell’ordine che creano veri e propri traumi, anche negli estranei che per casualità assistono a vicende di questo tipo, come è avvenuto quando qualche bambino è stato prelevato forzatamente dalla scuola e condotto in luoghi in cui i genitori, o almeno uno dei genitori ha dovuto faticare molto prima di sapere dove fosse, con chi fosse e perché. Sono casi rari, ma mostrano la fragilità di un sistema che ha bisogno di un monitoraggio continuo per conservare il pieno rispetto delle sue finalità, che restano sempre e solo quelle del maggiore interesse del minore.
Per molti avvocati i tempi delle indagini dovrebbero essere brevi e certi, in modo che il bambino potesse avere una particolare e personale protezione da parte del suo curatore speciale, figura che l’ordinamento già prevede ma che in Italia pochi si possono permettere. Il bambino avrebbe così il suo avvocato che lo tutela e che nomina i propri consulenti su elenchi di professionisti specializzati, pagati dallo Stato.
Altrimenti minori e famiglie resteranno sempre ostaggio dell’articolo 403 del Codice civile, quello che oggi dà ai servizi sociali l’enorme potere di decidere autonomamente se allontanare un bambino dalla famiglia, senza che questa possa fare nulla. Il 403, secondo molti esperti, andrebbe rivisto e aggiornato, per alcuni perfino soppresso. Appare infatti così vago e passibile di interpretazioni, che difficilmente i genitori e il bambino potrebbero sostenere verità diverse da quanto affermano i servizi sociali. Dal punto di vista procedurale mancherebbe proprio questa possibilità, che dovrebbe rendere più chiara la valutazione dei fatti e soprattutto più rispettosa della verità.
È nata quindi una rete di associazioni per dire basta a un sistema in cui i bambini possono essere sottratti alle famiglie senza contraddittorio e senza possibilità di difesa. Per dire basta a quelle norme del diritto minorile che consentono ai servizi sociali di intervenire e sostenere l’esistenza di abusi solo sulla base di indicatori di tipo comportamentale o di segni psico-diagnostici. Per dire basta a un sistema che, anche quando si riconosce l’innocenza dei genitori, non riesce a rimediare ai suoi errori in tempi ragionevoli perché “blindato” sulla base di meccanismi lenti e superati.
Basta pensare al famoso caso di Angela Lucanto, in cui neppure dopo aver dimostrato l’innocenza dei protagonisti è stato possibile restituire il minore alla sua famiglia naturale. Occorre attivare un processo di monitoraggio molto più obiettivo per valutare l’attività di terapeuti che diventano arbitri incontrollabili e incontestabili della situazione, di fronte a cui anche i giudici minorili sono costretti ad adeguarsi e le cui perizie si trasformano spesso in sentenze.
Esiste un lungo elenco di emergenze a cui porre rimedio, di provvedimenti da varare in tempi brevi, di riforme da approvare senza attendere nuovi casi come quelli che negli anni 90 si verificarono nella Bassa Modenese, o all’inizio degli anni 2000 al Forteto, a Rignano Flaminio, o più recentemente a Bibbiano, in Emilia-Romagna.
Paradossalmente si può dire che ci sono bambini che sono stati salvati grazie all’intervento dei servizi sociali, ma ci sono anche bambini che sono stati danneggiati irrimediabilmente da false istruttorie incardinate a danno di famiglie innocenti. Ci sono genitori che un giorno, senza preavviso, hanno trovato le forze dell’ordine alla porta e sono stati costretti a consegnare i figli e le figlie ai servizi sociali, con un allontanamento coatto che la stessa legge riserva a casi assolutamente rari.
E finalmente il ministero è intervenuto, anche se occorre riconoscere che numerose interrogazioni erano state presentate negli anni scorsi: io stessa ho più volte segnalato una serie di casi, senza mai ricevere risposta.
“In 18 mesi, dall’1 gennaio 2018 al 30 giugno scorso, sono stati collocati in un ambiente diverso dalla famiglia di origine 12.338 minori in tutta Italia. La media è di 23 collocamenti al giorno. In circa un caso su otto, i minori sono tornati nella famiglia di origine (1.540 provvedimenti di rientro). Sette collocamenti su dieci (8.722 in tutto) sono stati disposti dai tribunali per i minorenni, mentre il restante 30% circa è legato ad altri uffici. Molti minori sono stati collocati in comunità per mancanza di famiglie disposte ad accoglierli”. Sono i primi risultati dell’attività svolta dalla squadra speciale per la protezione dei minori, istituita presso il ministero della Giustizia nell’estate 2019, sulla scorta della vicenda giudiziaria di Bibbiano.
A riportare i risultati del pool di esperti voluto dal ministro Alfonso Bonafede è il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi, che ha precisato come siano dati che derivano da un primo monitoraggio, che ha raggiunto una copertura del 95% degli uffici (213 su 224) che si occupano di affidi minorili. Il gruppo di lavoro ha promosso una banca dati nazionale integrata sugli affidi, favorendo l’unificazione delle procedure su tutto il territorio. Secondo il ministro, si tratta di un unicum che garantirà trasparenza e rigore a tutti i cittadini, su un tema fortemente sentito dopo le vicende “Veleno” e “Angeli e Demoni”.
Ma proprio per questo appare assolutamente inspiegabile perché le due commissioni d’inchiesta sul Forteto e su Bibbiano, votate e approvate con legge apposita, non siano ancora decollate. Con uno stillicidio di rimandi che comincia a sollevare dubbi e perplessità sulle vere intenzioni del Governo…