L’orchestra sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia aveva preparato un programma davvero innovativo per chiudere il 2021 ed aprire il 2022. Ma il diavolo (ossia il Covid-19) ci ha messo la coda e se ne è potuto eseguire solo metà. Non era la solita musica natalizia od il consueto menu di valzer viennesi ed ungheresi, ma una accurata scelta di musica per fiabe, in gran misura russe. Il primo concerto (quello annullato causa pandemia) avrebbe dovuto presentare prima di Natale una novità per Roma, e forse per l’Italia; le musiche di scena di Čajkovskij, per La fanciulla di neve dello scrittore Ostrovskij; ricordo che da bambino venni incantato dalla produzione del Teatro dell’Opera di Roma (credo l’unica mai fatta) dell’opera che dalla medesima commedia trasse Rimiski Korsakov e mi apprestavo a godere la lettura della stessa fiaba da Čajkovskij ma la pandemia ha costretto ad annullare il concerto, o meglio a riprogrammarlo in futuro.
Il secondo appuntamento, a cui ho assistito il 9 gennaio, è un programma di fiabe in musica composte principalmente per balletti: Il bacio della fata, ispirato alla Vergine dei ghiacci di Hans Christian Andersen, composto da Stravinskij nel 1928, ed eseguito all’Opéra di Parigi nel novembre dello stesso anno per la compagnia di ballo di Ida Rubinstein e la suite di un classico del balletto, Cenerentola, che richiese al suo autore – Prokof’iev – una lunga gestazione prima della versione che andò in scena al Teatro Bolshoi nel 1945. Ha aperto la serata Menuet antique, scritto per pianoforte nel 1895 quando Ravel aveva vent’anni, e orchestrato nel 1929. Sul podio Juraj Valčuha – attuale Direttore Musicale del Teatro di San Carlo di Napoli.
Il Menuet antique, che con la sua breve durata (7 minuti) ha fatto da antipasto, può essere considerato il primo capolavoro di Ravel; è una composizione formalmente piuttosto semplice e si presenta in forma tripartita; la prima parte, indicata con Majesteusement, è il minuetto effettivo seguito dal trio (Doux) e si conclude con la classica ripresa. Sull’onda di Chabrier, Ravel dedicò notevole valore al ritmo che nella prima parte è ben rimarcato; nelle sonorità prevalgono le note acute che conferiscono al brano una grande leggerezza e una sonorità argentea, avvalorate dall’uso frequente di staccati. Il trio, più pacato ritmicamente, ha un tono arcaicizzante dovuto essenzialmente ad un’attenta intonazione modale. La versione per orchestra del 1929, è concepito per una formazione meno nutrita di quella presenta nella grande sala Santa Cecilia.
L’aspetto interessante dell’esecuzione (credo fosse la prima volta nei concerti dell’Accademia di Santa Cecilia e forse anche la prima a Roma) è la leggera patina slava data da Juraj Valčuha ad una composizione di stile prettamente francese.
Il bacio della fata segna un passo importante nell’evoluzione di Stravinskij: il passaggio allo stile russo-slavo a quello neo-classico e francese. Nel 1927 Stravinskij stava ancora ultimando la musica dell’Apollon Musagète quando Ida Rubinštejn gli chiese di realizzare un balletto per i suoi spettacoli. Il compositore amava moltissimo Čajkovskij e quando Alexandre Benois, che lavorava con la ballerina, gli propose la possibilità di creare un balletto ispirato alla sua musica, Stravinskij accettò subito, tanto più che era libero di scegliere argomento e trama dell’opera. La scelta cadde su La vergine dei ghiacci di Hans Christian Andersen. La trama è squisita. Una donna, stringendo a sé il proprio bambino, avanza a fatica sotto la neve. Sopraggiunge la Fata dei ghiacci che pone al collo del piccolo un talismano e lo bacia sulla fronte per poi allontanarsi mentre gli uomini di un villaggio vicino arrivano in soccorso. Passati vent’anni il bimbo è diventato un bel giovane prossimo a sposarsi con la figlia del mugnaio. Durante una festa, alla vigilia delle nozze, una zingara misteriosa legge la mano al giovane che rimane turbato e smarrito. Il giorno del matrimonio, durante i preparativi, appena la fidanzata si allontana, appare al giovane una donna velata; egli solleva il velo e riconosce la zingara del giorno prima, ora adornata di gioielli di ghiaccio e dal fascino regale: è la Fata dei ghiacci che giunge a riprendere il giovane segnato da quel bacio che lo aveva consacrato a lei. Egli la segue ammaliato nel suo mondo glaciale lasciando la fidanzata ad attenderlo invano.
Stravinskij fece quello che, in certa misura, aveva già fatto con la musica Giovanni Battista Pergolesi in Pulcinella. L’amore per l’opera di Čiajkovskij però non lo portò certo ad usarne la musica come aveva fatto con l’altro balletto, bensì a trattarla con affetto e tenerezza. Stravinskij scelse per la sua realizzazione solo parti vocali o pianistiche di Čiajkovskij e non opere orchestrali. Comunque più della metà dei brani che compongono il balletto sono originali di Stravinskij, gli altri rivisitati, sviluppati o intramezzati da pezzi originali. È stata eseguita la versione del 1928, non – come spesso avviene – quella successiva del 1934 per un organico orchestrale più piccolo. L’aspetto, a mio avviso, più interessante dell’esecuzione è come l’omaggio a Čiajkovskij, il più “occidentale” dei compositori russi di fine Ottocento- inizio Novecento, è tenuto sotto-inteso (ma presentissimo) mentre viene posto l’accento sul ritmo (specificamente stravinskijano).
La seconda parte del concerto è stata la Suite n.1 (Prokof’iev ne compose 3) di Cenerentola. Occorre precisare che la lunga gestazione del lavoro è stata dovuta non tanto da traslochi – come indicato nel programma di sala – da vere e proprie modifiche nei programmi nel compositore. Il balletto venne iniziato nel 1941 prima dell’invasione tedesca e dovette essere interrotto non solo perché Prokof’iev, come d’altronde quasi tutti gli altri artisti dovette trasferirsi a Alma Ata (in Asia centrale) dove fu impegnato a comporre un’opera “patriottica” di alto libello (“Guerra e Pace”) e musica per tre importanti film di Sergej Ėjzenštejn, (Aleksandr Nevski, nonché la prima e la seconda parte di Ivan Il terribile) oltre musiche per film “patriottici” ormai giustamente dimenticati (I partigiani nelle steppe dell’Ucraina, Kotovskij, Tonja). In queste condizioni, era arduo dedicarsi ad un balletto che, nelle intenzioni originali del compositore) era un inno all’amore. Sbocciò completamente, invece, dopo la fine della guerra e la vittoria. Anzi, l’inno all’amore divenne più forte coniugato con il riscatto della protagonista. Bene ha fatto Juraj Valčuha ad inserire Suite n.1 brani dalle altre due Suite che ancora di più mettono l’accento sul trionfo dell’amore.
Scarso pubblico, a causa della pandemia, ma grande meritato successo.