Ha suscitato vivaci e contrastanti reazioni la proposta recentemente approvata dal comitato ristretto della Commissione Istruzione del Senato di mettere mano al percorso formativo universitario che porta alle lauree in medicina, odontoiatria e veterinaria. Cosa è successo? Come al solito, per capire il contenuto del provvedimento e l’origine delle opposte posizioni assunte da chi è intervenuto (e sta intervenendo) nel dibattito vale la pena di cominciare dall’inizio (senza la pretesa di risalire ad Adamo ed Eva).
Gli antecedenti
Secondo i dati OCSE più recenti il nostro Paese oggi ha più medici della media europea e meno infermieri. Entrando però nei dettagli si scopre che:
– ci sono aree della medicina con forti carenze di sanitari (medicina del territorio/MMG, emergenza-urgenza, etc.);
– a causa dei provvedimenti adottati dai diversi governi che si sono succeduti in questi ultimi 15-20 anni (blocco delle assunzioni, tetti di spesa sul personale, numero chiuso per l’accesso a medicina ed alle specializzazioni, etc.) il picco di frequenza dei medici è posizionato oggi nella classe di età 60-64 anni, con la previsione che solo nel prossimo quinquennio andranno in pensione 40-45mila medici senza che ci sia una loro sostituzione;
– diversi motivi (che qui non saranno indagati) stanno spingendo i sanitari (e soprattutto i medici) ad uscire dalle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale (SSN) per trovare rifugio e soddisfazione all’estero o nel privato (accreditato o meno);
– come per tutte le altre facoltà universitarie, ma a medicina ancora di più per via degli sbocchi limitati che ha la professione, si pone un problema di equilibrio tra le opportunità occupazionali (quanti medici servono?) e le legittime aspirazioni professionali dei giovani (che facoltà scegliere?), problema complicato dal fatto che la formazione del medico richiede ben 11 anni di studio (6 per la laurea magistrale e 5 per la specializzazione) e quindi dal punto di vista programmatorio occorre saper guardare avanti;
– l’accesso alle facoltà universitarie mediche oggi non è libero ma è programmato (numero chiuso) ed altrettanto succede per la specializzazione.
In conclusione: siamo in presenza (e lo saremo ancora di più nei prossimi anni) di un problema di disponibilità di medici per il servizio sanitario.
Il fatto
Il comitato ristretto della Commissione Istruzione del Senato ha da poco approvato, con l’accordo di maggioranza ed opposizione, un provvedimento che modifica le modalità di accesso alle facoltà di medicina, di odontoiatria e di veterinaria.
A differenza di quanto succede oggi, dove per queste facoltà vige il numero chiuso (o meglio, il numero programmato, per usare un linguaggio “politically correct”, perché numero chiuso sa di antidemocratico), la commissione senatoriale ha approvato la proposta di togliere il test di ingresso (cioè il muro da superare che dà luogo al numero programmato di accessi, test più volte criticato e rivisto negli ultimi anni) e di lasciare libero accesso ad un primo semestre da considerare propedeutico a tutte le facoltà biomediche, a valle del quale subordinare l’ammissione ai corsi successivi al conseguimento di una serie di crediti formativi universitari stabiliti in dettaglio nella proposta e al raggiungimento di una determinata posizione nella graduatoria di merito nazionale.
In pratica, da una parte non viene abolito il numero chiuso a medicina ma la sua messa in opera viene spostata dal momento dell’accesso all’università a sei mesi dopo (accesso ritardato); dall’altra il test di entrata viene sostituito dal raggiungimento di un insieme di crediti formativi da accumulare nei primi sei mesi di accesso all’università attraverso corsi ed attività didattiche che si ipotizza di essere frequentati prevalentemente a distanza.
Per altro, rimanendo in vigore il numero programmato anche se la sua operatività risulta ritardata di sei mesi, il conseguimento dei crediti stabiliti non fornisce alcuna garanzia di prosecuzione al percorso universitario medico, perché tale prosecuzione dipenderà comunque dal numero programmato di accessi e quindi dalla posizione in classifica che il candidato occuperà in una graduatoria a livello nazionale.
I commenti
Al di là delle modalità attraverso le quali si arriva oggi (o si arriverà domani) alla determinazione del numero programmato di medici che il sistema scolastico (universitario e post-universitario) dovrà formare, sta di fatto che l’accesso alle facoltà mediche è solo un primo passo, per quanto importante e necessario, per svolgere l’attività di medico: si è già detto in precedenza, infatti, che la crisi di oggi trova gran parte delle sue ragioni in scelte e decisioni di ordine programmatorio che non hanno avuto a che fare con la formazione dei professionisti, ma con altri obiettivi che il SSN si è posto e che ha tradotto con provvedimenti come i tetti di spesa, il blocco delle assunzioni, la politica retributiva e così via. Pensare di risolvere i problemi dei medici agendo solamente nella fase di accesso vuol dire non aver capito le conseguenze degli errori di programmazione che hanno portato alla situazione di oggi. C’è una filiera di azioni che devono essere messe in atto sia dentro l’iter formativo (università ma anche specializzazione post-universitaria) che dentro la gestione politica complessiva del SSN, e la modifica delle regole di accesso all’università, necessaria perché è il primo passaggio del percorso, non è certo sufficiente, ma come si usa dire “piuttosto che niente è meglio piuttosto”.
La proposta ha trovato commenti favorevoli tra i politici sia di maggioranza che di opposizione (con gli ovvi distinguo e le prese di distanza che si addicono al diverso ruolo), in particolare tra coloro che, contrari al numero programmato, hanno voluto vedere in questo provvedimento (anche se di fatto non è così) un primo passo verso, appunto, l’abolizione del numero chiuso.
Parimenti, la proposta ha trovato invece commenti contrari nel personale medico organizzato (Anaao Assomed, Fnomceo) ma anche tra alcuni universitari (si vedano le interviste a Giancarlo Cesana e Rizzuto su questo giornale), sia perché contrari all’abolizione del numero programmato, sia perché nella proposta vi si vede la conseguenza che il provvedimento possa dare luogo ad una pletora di laureati che non avranno la possibilità concreta di lavorare come medici. Ci sono anche critiche ad aspetti specifici del provvedimento, in particolare sul processo di selezione dopo i sei primi mesi di accesso, ma su questi elementi più tecnici si potrà sempre intervenire in seguito.
Chi ha ragione? Che si debbano combinare le legittime aspirazioni degli studenti con le necessità del sistema sanitario (come dice il ministro Anna Maria Bernini) è evidente, così come è altrettanto evidente che il mondo dell’istruzione e formazione (universitaria e specialistica) e quello della sanità (servizio sanitario) devono parlarsi e collaborare se si vuole tentare di risolvere il problema dei medici evitando gli errori di programmazione compiuti in questi anni. Che si sia mosso il pachiderma della formazione universitaria è di sicuro un buon segno, anche se probabilmente ci si attendevano provvedimenti più robusti ed estesi: vedremo, come dice il proverbio, se “il buon giorno si vede dal mattino”.
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