A quasi due anni esatti dall’inizio di uno dei conflitti in Africa più sanguinosi e devastanti giunge l’accordo di pace, siglato in Africa, tra il governo dell’Etiopia e il Tigray People’s Liberation Front. Un cessate il fuoco che ha come primo significato la riapertura dei confini per il passaggio dei convogli umanitari nel Tigray, dove milioni di persone sono state sfollate in questi anni con conseguenze disastrose. Le vittime invece sarebbero state circa 600mila.
Un conflitto iniziato a causa dell’emarginazione imposta al Tigray dal presidente etiope Abiy Ahmed nel quadro di un paese, l’Etiopia, diviso in tantissime realtà tribali e locali. “Il raggiunto cessate il fuoco”, ci ha spiegato in questa intervista Marco Di Liddo, responsabile dell’Area Geopolitica e analista responsabile del Desk Africa e del Desk Russia e Balcani del Cesi, “dovrà rispondere a una serie di quesiti importanti, affinché non si riprendano in mano le armi, a partire soprattutto da quali concessioni il governo di Addis Abeba è disposto a offrire al Tigray. Concessioni che vanno inquadrate in una realtà, quella etiope, costituita da molte altre fazioni locali che chiedono anche loro un riconoscimento a livello nazionale e che non possono essere lasciate da parte, con il rischio che possano divampare altri conflitti locali”.
Come si è arrivati a questo accordo che fino a due settimane fa sembrava impensabile?
In questo accordo ha avuto un ruolo fondamentale Olusegun Obasanjo, ex presidente nigeriano, che si è speso come mediatore a nome dell’Unione africana, anche se non ufficialmente. Ma per arrivare a tutto questo bisogna considerare la lunga mano occulta di diversi paesi stranieri.
Intende gli Stati Uniti che erano presenti alle trattative?
Gli Stati Uniti hanno avuto certamente un ruolo importante, ma da non sottovalutare è l’azione paziente e non altrettanto esplicita di Cina ed Emirati Arabi, che hanno agito in maniera più discreta. Gli Emirati Arabi sono al momento uno degli attori più influenti quando si parla di Corno d’Africa con una politica molto ben indirizzata negli strumenti e nelle intenzioni, mentre la Cina ha avuto tutto l’interesse che il conflitto rientrasse, perché ha investito miliardi di dollari nello sviluppo dell’Etiopia.
Ha parlato del ruolo degli Emirati Arabi. Perché sono giunti fin quaggiù?
Sono arrivati fino a qui per rafforzare la propria architettura di difesa regionale, il Corno d’Africa è separato dal Golfo Persico da uno stretto piccolissimo. Hanno bisogno di investire per garantirsi la sicurezza e poi hanno motivi economici. Nonostante la povertà, i paesi di questa regione sono mercati emergenti, che hanno la fortuna di affacciarsi sulla principale rotta tra Oriente e Occidente. Chi ha il dominio su quella rotta guadagna moltissimo. Ci sono poi anche interessi di land grabbing, un fenomeno economico e geopolitico di acquisizione di terreni agricoli su scala globale molto discusso.
Quello raggiunto in Sudafrica era un accordo che quasi nessuno si aspettava, è così?
L’accordo è arrivato a quasi due anni esatti dall’inizio di un conflitto molto duro economicamente, ma soprattutto umanamente, con centinaia di migliaia di vittime e in cui nessuna delle due parti riusciva a prevalere. Un conflitto che geograficamente si poneva nella direttrice di comunicazione che porta da Addis Abeba a Gibuti, fino alla costa di Aden e al Mar Rosso. E’ un segmento di costa importantissimo, perché non avendo l’Etiopia uno sbocco al mare Gibuti è di fatto il terminal portuale della regione. Una guerra che aveva ostacolato parecchi progetti come il rilancio dell’Eritrea e di Gibuti stessa. Insomma, una guerra che nessuno voleva.
Reggerà questo accordo?
Ci sono due elementi in gioco: il governo etiope e il movimento tigrino. Però attorno a ciascuno di questi attori orbitano una serie di soggetti etnici e paramilitari su base tribale. Obbedivano ai loro protettori politici, finché conveniva loro. Non abbiamo la certezza che queste milizie rientrino a casa e non si dedichino ad altre attività.
Che altri elementi ci sono in gioco?
Questo accordo deve assumere un connotato politico, i cui contenuti non sono semplici. I tigrini chiederanno un ribilanciamento a livello nazionale, perché uno dei punti del programma del primo ministro etiope Abiy Ahmed era proprio la loro emarginazione. Inoltre ci dimentichiamo spesso che l’Etiopia sta costruendo quella che si chiama la Grande Diga del Rinascimento, che dovrebbe rivoluzionare il paese in termini di disponibilità idrica e di elettricità per soddisfare le esigenze industriali del paese. Dipende da quanto i tigrini giudicheranno soddisfacente l’offerta che riceveranno, altrimenti il conflitto potrebbe riaccendersi.
Quanto questo conflitto ha segnato il futuro del paese?
L’Etiopia è un paese non omogeneo, che conta tantissime etnie diverse, molte delle quali chiedono concessioni per aumentare il loro peso politico. Il rischio da evitare è che passi il messaggio che una ribellione armata può portare a un risultato politico. Se passa questo messaggio, altri gruppi faranno lo stesso.
L’Eritrea, che è stata coinvolta in questo conflitto, non ha preso parte agli accordi. E’ uno dei pochissimi paesi al mondo che non ha votato contro l’invasione russa dell’Ucraina. Questo vuol dire che nella regione è presente anche la Russia?
Assolutamente no. Quel voto dell’Eritrea si giustifica con l’isolamento internazionale di un regime sanzionato in tutti i modi, molto simile alla Corea del Nord. Un paese che si vende sul mercato: quel voto a favore della Russia era un’opera di mercimonio puro.
(Paolo Vites)
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