Con il recente accordo sul riconoscimento dello Stato di Israele, gli Emirati Arabi Uniti si allineano con gli unici due Stati arabi che hanno finora compiuto questo atto: l’Egitto nel 1979 e la Giordania nel 1994. Questo accordo potrebbe costituire un esempio per altri Paesi che, come gli Emirati, hanno da tempo rapporti distesi con Israele. Una situazione in divenire ben descritta nell’intervista sul Sussidiario a Filippo Landi, nel quale si sottolineano però anche le non ingiustificate reazioni negative dei palestinesi. L’accordo, infatti, prevede solo una temporanea cessazione dell’espansione israeliana in Cisgiordania e non il ritiro dalle zone già occupate, né sembrano incluse proposte per una soluzione definitiva della questione palestinese.
In effetti, questo accordo sembra più connesso con la soluzione della “questione israeliana”, cioè il pervicace rifiuto arabo ad accettare l’esistenza di Israele, che ha a sua volta originato la “questione palestinese”. Quest’ultima si presenta ora con due facce: quella dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania e quella di Hamas nella Striscia di Gaza.
Per la Cisgiordania si può forse intravvedere, superate le reazioni immediate, l’avvio a una possibile soluzione, anche se non del tutto in linea con la originaria strategia dei “due Stati”. Potrebbe per esempio ritornare alla ribalta un maggior coinvolgimento della Giordania, ventilato nel 2018 in via ufficiosa anche dal presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, addirittura con l’ipotesi di una confederazione tra Stato Palestinese e Giordania.
La situazione si presenta più complicata per Gaza, che non è più occupata da Israele, ma dove Hamas rimane apparentemente sostenitrice della soluzione “un solo Stato”, quello arabo, per tutto il territorio. La visione di “un solo Stato” è paradossalmente condivisa dagli estremisti israeliani, che ovviamente vorrebbero uno Stato solo ebraico.
L’accordo è stato enfatizzato sia da Netanyahu che da Trump, ma sono evidenti in entrambi i casi le ragioni elettorali che si affiancano a quelle oggettive. La comunità ebraica negli Stati Uniti è sempre stata molto importante nelle elezioni presidenziali e con questa mossa Trump spera di avere la comunità dalla sua parte. Anche nella scelta di Joe Biden di Kamala Harris vi è un riferimento alla comunità ebraica, perché la candidata alla vicepresidenza, oltre che donna e indo-afro-americana, è sposata a un avvocato ebreo americano. Per quanto riguarda Israele, non è esclusa l’eventualità di una quarta elezione anticipata e questo giustifica l’ambiguità delle dichiarazioni di Netanyahu. Da un lato, infatti, elogia l’accordo, ma dall’altro dichiara che la politica delle annessioni in Cisgiordania rimane nel programma, essendone solo momentaneamente sospesa l’attuazione.
L’accordo tra Israele ed Eau evidenzia la frattura tra gli Stati del Golfo da una parte, appoggiati dall’Egitto, e Turchia e Qatar dall’altra. La Turchia ha fatto proprie le critiche dei palestinesi e ha accusato gli Emirati di aver tradito la causa palestinese, condanna condivisa dall’Iran, che ha approfittato dell’occasione per schierarsi in difesa dei palestinesi in funzione anti-israeliana. Tuttavia, altri Paesi hanno cominciato ad avanzare l’ipotesi di seguire l’esempio di Abu Dhabi: è il caso dell’Oman, del Bahrain e del Sudan. La firma da parte di altri Paesi arabi di accordi simili a quello di cui si sta discutendo, rafforzerebbe in modo rilevante il ruolo degli Emirati, configurando una sorta di “sorpasso” nei confronti dell’Arabia Saudita.
Non è quindi un caso se i sauditi, dopo alcuni giorni di silenzio, hanno dichiarato che il riconoscimento di Israele sarà possibile solo dopo la soluzione del problema palestinese, che per Riyadh parte dal completo ritiro degli israeliani dai Territori. In questo modo, l’Arabia Saudita rimane fedele alla sostanza dell’Iniziativa di pace araba firmata nel 2002, sottraendosi all’accusa di tradimento verso i palestinesi.
Tuttavia, le opinioni all’interno del Paese sono tutt’altro che univoche e ci si può aspettare l’inizio di una serie di trattative sotterranee tra Israele, sauditi e altri governi della regione. Una posizione simile è stata presa anche dalla Giordania che, avendolo già riconosciuto da quasi trent’anni, ha tutti i titoli per invitare Israele a una giusta soluzione per la Cisgiordania. Che, come accennato, potrebbe coinvolgerla direttamente.
Rimane così confermata la progressiva differenziazione della politica estera di Abu Dhabi rispetto a quella di Riyadh, come già avvenuto in Yemen, dove gli Eau hanno ridotto di molto la loro presenza militare e appoggiato i separatisti dello Yemen del Sud che si oppongono al governo sostenuto dai sauditi. Anche in Libia la presenza dell’Eau a fianco dell’Egitto si è dimostrata molto più incisiva di quella dei sauditi. Abu Dhabi potrebbe far concorrenza a Riyadh anche nel rapporto con gli Stati Uniti, tanto più se venisse eletto presidente Joe Biden, dato l’atteggiamento critico dei Democratici nei confronti dell’Arabia Saudita. Pur rigorosamente musulmani, gli Emirati sembrano mantenere un atteggiamento più moderato rispetto al regime saudita che, malgrado i tentativi di modernizzazione, non può fare a meno dell’appoggio dei rigidi wahabiti.
Inoltre, Abu Dhabi è il luogo dove Papa Francesco ha promulgato la dichiarazione sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune, documento firmato con il Grande Imam di al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb. Cioè con la più alta autorità sunnita egiziana, il cui attuale Grande Imam è molto legato al Presidente egiziano al-Sisi. Un altro tassello nella vicinanza tra Emirati, Egitto e Israele.