Malgrado una storica e antichissima attitudine alle relazioni internazionali, nata con l’Antica Roma e proseguita con i monasteri del Medioevo e poi con le città stato e malgrado eccellenze nello studio delle questioni internazionali, l’Italia di oggi è da tempo troppo ripiegata su se stessa e accusa anche su questo un grosso deficit culturale e politico. Lo dimostra la sorpresa, lo stento nei commenti e qualche volta i toni con cui è arrivata la notizia del RCEP, un mega-accordo di libero scambio fra 15 Paesi che rappresentano il 30% del Pil mondiale (il 39% secondo alcuni), 2,2 miliardi di persone, fra questi Cina, Giappone nonché Australia e Nuova Zelanda, fra quelli che consideriamo un po’ della “nostra parte” del mondo. L’istinto è quello di leggerci dietro un’altra macchinazione della Cina per conquistare il mondo mentre aleggia fra molti, più o meno francamente, il dubbio che questa tragica pagina di storia detta pandemia da Covid-19, veda un loro tremendo zampino e comunque una qualche responsabilità su questi eventi.
Situazioni complesse per districare il filo con certezza, se c’è certezza e d’altra parte gli accordi di libero scambio sono per natura circondati da lunghissime fasi di silenzio e di oscurità. Pure da questa parte del mondo. Basti pensare che nel 2018 il Parlamento europeo ha dato il via libera definitivo alla Commissione Ue per negoziare accordi di libero scambio con Australia e Nuova Zelanda. Sappiamo che i negoziati vanno avanti, ma provate a cercare notizie, aggiornamenti o a raccogliere riflessioni dopo i primissimi sporadici sbuffi (di qualche esponente della Lega) su alcuni classici temi come la tutela del Made in Italy, ecc. Quasi impossibile.
Per il RCEP è allora corretto intanto ricordare che le trattative e il passaggio dall’idea all’atto pratico risale al 2012. Parecchio prima di Trump per intenderci. E poi che, stando alle non molte cronache e analisi circolate in questi anni, il Paese maggiormente interessato a questo nuovo fronte economico è stato non la Cina, ma il Giappone. Che nella visione un po’ manichea che abbiamo delle relazioni politiche e di quelle internazionali, è come dire il diavolo e l’acqua santa. Il maggior manovratore per quest’accordo (dal quale alla fine, si è tirata fuori l’India, che infatti al momento non c’è e questo è un altro importante aspetto da approfondire) è stato quindi il Giappone preoccupato di recuperare uno spazio dopo l’uscita dal Partenariato Transpacifico degli Usa – il proprio maggior partner commerciale -, non la Cina alla conquista del mondo. I due storici avversari che continuano a guardarsi in cagnesco per mille ragioni e interessi, di fronte all’opportunità economica hanno firmato un grande accordo epocale. Senza avere nemmeno quelle affinità che si poteva rintracciare fra i Paesi fondatori dell’Unione europea, dopo il pur sanguinoso conflitto mondiale.
Complesse ragioni economiche perciò, se vogliamo anche di forte e originale pragmatismo economico che supera anche le ancor più complesse questioni politiche che continuano a vivere e a dividere i protagonisti di questa scelta, hanno accelerato la chiusura di quest’accordo. Con l’adesione di Paesi come l’Australia, per esempio, che è noto avere o aver avuto un atteggiamento molto critico se non prudente con il predominio cinese, fino al punto di stipulare un accordo per godere del sostegno militare americano ove mai questo predominio avesse avuto risvolti egemonici.
Poi su ognuna di queste osservazioni può scorrere tanto inchiostro a spiegare i distinguo, le eccezioni, le contraddizioni, i rischi, l’incidenza dell’era Trump che ha sconvolto tutti i tratti di queste relazioni per come le avevamo considerate per cinquant’anni. Ma il primo e principale livello è la valutazione economica e nondimeno, il compromesso che i protagonisti sono stati capaci di realizzare, come l’esclusione di 4 prodotti nell’interesse del Giappone appunto, e molto altro.
In definitiva dietro quest’accordo deve leggersi innanzitutto la prevalenza o se vogliamo al contrario, visto che è andata più di moda in questi anni, la soccombenza della dottrina dei dazi e delle chiusure. Mentre l’economia globale e gli equilibri tradizionali e i rapporti di forza e vari tratti di quella che chiamiamo globalizzazione manifestano segni di grave crisi e difficoltà, è meglio alzare barriere e chiudersi per stimolare mercato, produzione e consumi interni (dottrina Trump) o invece aprirsi, rimuovere e abbattere ostacoli per favorire scambi, transazioni e relazioni per come ciascuno saprà mettere a leva le proprie doti?
Quest’accordo deve aprire una discussione, analisi e approfondimenti economici, prima che politici. Ricordiamo però che insieme a Francia e Germania l’Italia è già dentro l’AiiB (Asian Infrastructure Investment bank), cioè – questa si voluta dalla Cina – l’alternativa asiatica al Fondo monetario internazionale e alla Banca Mondiale, il cui valore politico può sintetizzarsi ricordando che quando l’Inghilterra via ha aderito, prima degli altri, dagli Stati Uniti arrivarono vere e proprie minacce al proprio storico e privilegiato partner europeo. Così come deve ricordarsi la strategia cinese sul sistema portuale mediterraneo, da Valencia a Bilbao, a Bur Said, Haifa, Gibuti, Alessandria, Rotterdam, Suez, che nessuno si è organizzato per contrastare, né stracciato le vesti per avvertire sui rischi dell’espansione del Nuovo Impero. Insomma, che la Cina segua la strada della sua affermazione economica e, quando potrà, di egemonia politica è chiaro. Anche prima o senza il RCEP. Quello che non è molto chiaro è che cosa perseguiamo noi.