Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire. Dopo la pandemia da Covid-19 e la Guerra in Ucraina, la crisi del debito federale americano avrebbe assestato il colpo mortale all’economia globale. “La madre di tutte le crisi”  dagli esiti catastrofici è stata scongiurata dall’accordo fra la Casa Bianca e i repubblicani, che prevede l’innalzamento del tetto del debito per i prossimi due anni, in modo da evitare che la questione diventi un tema per la campagna elettorale.



Dramma evitato, ma per molti analisti tutta la polemica che ha animato il dibattito sul debito federale è stata poco più che una farsa alimentata per questioni politiche. Barry Eichengreen, ad esempio, ha parlato di “narrazione terrificante” strumentale ad alimentare il panico per una crisi che non si sarebbe mai potuta avverare poiché la dinamica del debito pubblico non registra aumenti drammatici – a riguardo il Congressional Budget Office ha calcolato un incremento del debito di “solo” il 10% per il 2033 – e il tasso d’interesse reale è ancora contenuto, rimanendo all’1,2%. Dato significativo, perché le previsioni di crescita per i prossimi dieci anni sono dell’1,7%; più alte, quindi, del tasso di interesse reale.



In definitiva, fin quando il tasso di interesse reale – che tiene conto dell’andamento dell’inflazione – è inferiore al tasso di crescita del Pil la ratio fra debito e Pil può diminuire anche a fronte del deficit delle casse statali. Una impostazione macroeconomia ribadita da Olivier Blanchard nel suo recentissimo Fiscal Policy under Low Interest Rates che dimostra che la teoria economica che ha ispirato le politiche economiche degli ultimi venti anni esercita ancora un grande fascino.

Indipendentemente dalla fondatezza dell’opinione di chi riteneva poco plausibile una crisi del debito federale americano – che in questa contingenza sembra oggettivamente più legata a questioni politiche che puramente economiche –, sono ancora tante le questioni rimaste sul tavolo, mentre l’innalzamento del tetto del debito assomiglia a un costoso modo per guadagnare del tempo. L’inflazione, ad esempio, non necessariamente sarà destinata a scendere, come ottimisticamente immaginano gli economisti come Eichengreen. La palla passa alla Fed e la Yellen potrebbe avere in serbo altre sorprese poco piacevoli.



Inoltre, è tutta da dimostrare l’ipotesi che quello che Ben Bernanke ha definito “l’eccesso di risparmio globale” possa tornare in modo graduale ad alimentare i flussi di capitale che dovrebbero finanziare l’economia americana, rendendo sostenibile il suo debito. Indubbiamente ha ragione Bernanke quando invita a riflettere sulle asimmetrie che comporta per l’economia globale il fatto che i Paesi asiatici e quelli in via di  sviluppo siano divenuti dei  prestatori netti di capitali – sostanzialmente l’elemento che ha caratterizzato il Bretton Woods 2 –, ma che i flussi di capitali dal centro possano tornare a fluire verso la periferia in modo da avviare nel medio periodo un processo di “riaggiustamento” e di equilibrio fra risparmi e investimenti è un’ipotesi che pare, al momento, decisamente ottimistica, per il semplice motivo che non esiste un’impalcatura istituzionale che potrebbe governare questo processo e che il “centro” del sistema non sembra godere di buona salute.

Ridurre i livelli di indebitamento e stimolare i consumi interni affidandosi ai flussi di capitali in cerca di impieghi più redditizi vuol dire assumere che la fase attuale della globalizzazione è transitoria e non il frutto di una riconfigurazione sistemica che ha messo in discussione l’interconnessione e l’interdipendenza dei mercati globali.

In altre parole, non possiamo avere la certezza che si realizzerà una nuova stagione di investimenti per la transizione energetica, infrastrutture più efficienti e digitalizzazione con cui stimolare la crescita economica e quindi rendere sostenibile il debito. Sono tante, troppe le variabili che potrebbero far saltare questa impostazione. Ci limitiamo ad elencarne tre.

La prima riguarda lo status di valuta di riserva mondiale del dollaro, la seconda la costruzione di un nuovo rapporto fra centro e periferia e la terza la competizione fra Usa e Cina. Per tenere assieme questi tre aspetti, i Paesi asiatici dovrebbero essere sostituiti da Unione Europea – in particolare dalla Germania – e dal Giappone nella funzione di finanziatori dell’economia americana, divenendo, al contempo, anche suoi mercati di sbocco. Inoltre occorrerebbe che la rivalità sino-americana non alimenti una nuova escalation. Ovvero il ritorno alle certezze economiche e finanziarie del mondo del secondo dopoguerra.

Purtroppo, un nuovo ordine globale è ancora lontano e con buona pace di Bernanke non saranno i mercati finanziari a farlo nascere; soprattutto, mai come questa volta l’economia mondiale non sembra avere a disposizione i tempi lunghi dei modelli degli economisti.

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