L’accordo raggiunto durante l’Ecofin di ieri, tenuto in videoconferenza, sulle nuove regole fiscali europee che riformano il Patto di stabilità è un’ottima cartina al tornasole per comprendere da un lato come funziona effettivamente l’Europa e dall’altro i caratteri della leadership economica alla guida dei maggiori paesi dell’Unione.
Se da un lato è preferibile che un accordo vi sia stato, raggiunto due giorni fa a Parigi dai ministri delle Finanze francese e tedesco, Le Maire e Lindner, ai quali l’Italia avrebbe aderito, e la condizione di accordo è indubbiamente meglio di una di contrasto protratto nel tempo, dall’altro non possiamo sottrarci a una valutazione dei contenuti del medesimo e, soprattutto, del contesto rivelatore che da esso emerge.
Parto dunque da quest’ultimo, che ritengo essere il lato più deludente della questione, e pongo quattro domande, tutte retoriche:
1) Regole rigide, in pratica da contratto commerciale, si pongono tra partner cooperanti oppure tra controparti?
2) Regole rigide ma razionali cosa dovrebbero vincolare? I comportamenti degli agenti, in questo caso gli Stati, il loro impegno, oppure i risultati della loro azione?
3) E ha senso vincolare attraverso parametri precisi e predefiniti i risultati quando essi non sono sotto il controllo degli agenti ma al più sotto una loro influenza, incerta e fluttuante?
4) E ha senso introdurre, o confermare, sanzioni nel caso in cui gli agenti non conseguano risultati che tuttavia non sono sotto il loro controllo?
Gran parte dei risultati di finanza pubblica che le vecchie e nuove regole europee vorrebbero imbrigliare non sono infatti sotto il controllo dei governi e dei parlamenti nazionali, ma sono solo influenzabili, con intensità più o meno elevata e comunque variabile, incerta e non preventivamente quantificabile. Dunque nessun governo può a priori garantire alcun esito specifico.
Questa realtà, oggettiva e immodificabile, contrasta tuttavia con l’apparente rigorismo di Berlino, ben sintetizzato in questi giorni dagli organi di stampa nel “Vogliamo numeri certi e non discrezionali” e più dettagliatamente spiegato dal ministro tedesco Lindner nella seguente dichiarazione: “La Germania non accetterebbe regole che non sono rigide, credibili, sufficienti ed efficienti per portare a livelli di debito più bassi e a un percorso affidabile per ridurre i deficit e penso che ciò che otterremo sarà esattamente questa landing zone: consentiamo gli investimenti, manteniamo uno spazio fiscale per le riforme strutturali, ma rispetto alle vecchie regole le nuove porteranno ad abbassare tali livelli e abbassare i deficit. Le vecchie regole sono rigorose sulla carta, ma non nell’applicazione”.
Qui vi sono due problemi, anzi due veri e propri errori:
– Le regole rigide non sono purtroppo credibili… (come ho cercato di dimostrare qui sopra e in precedenti occasioni). Una nave che è appena uscita da una tempesta mai vista prima, come l’Europa col Covid, e non è certa di non trovarsi in una seconda (la crisi geopolitica avviata con la guerra dei russi in Ucraina e proseguita in Medio Oriente) può forse programmare una rotta automatica o dovrà per forza navigare a vista? E lo stesso per il comandante di un aereo che sta (forse) uscendo da una forte turbolenza. Potrà forse mettere subito il pilota automatico? Non dimentichiamo che le regole europee rigide del periodo 2011-14, introdotte per mettere sotto controllo i debiti nazionali più elevati e ridurli in rapporto al Pil, hanno nella realtà più che raddoppiato nel caso dell’Italia la velocità di crescita di tale rapporto… Le regole rigide hanno già portato in quel caso a un esito nefasto.
– Se le vecchie regole sono rigorose sulla carta ma non nell’applicazione non vuol dire necessariamente che siano blande e insufficienti. Potrebbe in realtà essere proprio l’opposto: eccessive, non ragionevoli e in conseguenza inapplicabili. Ma questa ipotesi il ministro delle Finanze tedesco non la prende in considerazione e quello francese si adegua, non avendo compreso neppure lui. “Sono molto felice di annunciarvi che siamo vicini a un accordo al 100% tra Francia e Germania”, ha infatti dichiarato due giorni fa.
Riguardo ai numeri certi e non discrezionali su deficit e debito l’ipotesi al momento più probabile è che i Paesi con debito elevato, superiore al 90% del Pil, dovranno ridurre il loro disavanzo annuo di bilancio sino ad arrivare all’1,5%, dunque la metà del vecchio 3% introdotto in origine dal Trattato di Maastricht del 1992. Ma non è chiaro in quanto tempo dovranno farlo, forse più dei quattro anni inizialmente invocati dai falchi rigoristi, e quale sarà il gradino minimo annuo di riduzione che si dovrà portare sull’altare sacrificale di Bruxelles… Anche se l’aumento della spesa per interessi derivante dal rialzo dei tassi deciso nell’ultimo anno dalla Bce sarà scorporato dal calcolo, così come probabilmente anche una parte della spesa per la Difesa, non dobbiamo dimenticare che tutti questi numeretti così tanto amati a nord delle Alpi dipendono da quel burlone del Pil, che sta sempre al loro denominatore e non ama farsi controllare da nessun Governo o ministro delle Finanze, pur liberale e tedesco o macronista e francese che possa essere…
All’obiettivo della riduzione obbligata del deficit si aggiunge poi anche quello del debito, rispetto al quale i rigoristi amanti dei numeretti vorrebbero che fosse di un punto percentuale all’anno. Ma anche qui entra in scena quella burlona della crescita economica, non prevista dal copione teatrale di Lindner e Le Maire, che si diverte a giocare più ruoli nello stesso tempo: al denominatore, sotto le sembianze del Pil nominale, e anche al numeratore, sotto le sembianze delle entrate fiscali dei Governi, dato che determina gli imponibili fiscali rispetto ai quali i Governi decidono solamente le aliquote, e giocando il ruolo delle entrati fiscali gioca anche quello del saldo di bilancio e con esso anche quell’altro della crescita dello stock del debito nel tempo.
Quanta crescita economica “obbligata” è stata inserita nei numeretti dell’accordo tra i ministri finanziari? Nessuna? Ah ecco… Peccato che senza questo piccolo numerino l’insieme degli altri non abbia senso. I ministri finanziari hanno ancora una volta fatto i conti senza l’oste della crescita.
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