Achille Occhetto verrà ricordato per sempre per esser stato lo sconfitto “di successo” nella storia della Sinistra: battuto da D’Alema nel post-PCI, perdente al fotofinish nelle elezioni del 1994 che sembravano impossibili da perdere dopo Tangentopoli e protagonista di quella “gioiosa macchina da guerra” battuta a più non posso dall’avvento di Silvio Berlusconi e la “rivoluzione” di Forza Italia. In una lunghissima intervista a Sette-Corriere della Sera, l’ultimo segretario del Partito Comunista Italiano ripercorre i suoi 83 anni di vita, più della metà passati in politica e protagonista di uno dei periodi più contraddittori della politica italiana. Non solo, prova a “difendersi” dall’accusa di aver con quella foto così particolare del 1988 (mentre baciava la sua consorte Aureliana Alberici, ndr) dato il là al periodo di una politica “personale”, “d’immagine” financo populista. «Tre anni fa ho festeggiato qui anche i miei ottant’anni. Vedo che molti si auto-celebrano. Il mio è stato un brindisi senza clamore», spiega Occhetto al giornalista Zincone (che già nelle scorse settimane intervistò un altro big della politica del passato, Paolo Cirino Pomicino). In quella foto scattata a Capalbio nell’estate 1988 con a moglie durante la fine di un servizio fotografico fu oggetto di forti polemiche interne al Partito Comunista appena conquistato nella sua leadership: «Quando sentii i vetero-babbioni del partito che criticavano quelle immagini, ne difesi la pubblicazione. In realtà, però, non le avevamo concordate».



OCCHETTO E QUEL COMUNISMO “POPULISTA”

Occhetto nega però con forza nella lunga intervista a “Sette” che quella foto possa aver dato il via ad una politica “personalizzata”: «È Berlusconi, nel 1994, ad aver introdotto il modello del leader risolutore, insieme con il primato della comunicazione politica. E così si sono spalancate le porte a quel populismo che viviamo in maniera esacerbata. Ora si intravede un’altra pagina del tutto inedita della politica italiana: la democrazia illiberale. Sono preoccupato». Parla con cortesia e stima del nuovo corso dem con Zingaretti – «il Segretario si dovrebbe porre come obiettivo quello di uscire dal male oscuro delle divisioni interne. E le alleanze… Oggi l’alternativa è tra le forze che credono nella liberaldemocrazia e quelle che vogliono introdurre una democrazia illiberale» – e ovviamente stronca la presenza di Salvini nella politica italiana «Esiste un’Italia che mal sopporta gli elementi di mussolinismo salviniano. Anche se non mi pare che ci sia ancora molta consapevolezza. È inaudito il modo in cui manda al diavolo contemporaneamente l’Onu, il Papa e il Presidente della Repubblica. Un tempo, se un leader avesse sbeffeggiato le istituzioni come fa lui, ci sarebbe stata una rivolta morale e politica». Rispetto alla dolorosa ma necessaria “fine” del PCI posta per volontà di Occhetto, l’ex segretario e fondatore del PdS si difende così: «io avevo creato una serie di premesse che aprivano la strada al processo: la celebrazione del monumento dedicato a Togliatti, a Civitavecchia, in cui dichiaro che il Migliore è stato parzialmente colpevole dei delitti di Stalin; il viaggio a Budapest con l’omaggio a Imre Nagy; la manifestazione sotto l’ambasciata cinese dopo Tienanmen durante la quale dico che il comunismo è finito… Forse qualcuno non ha voluto sentire. Io ho preparato il terreno, poi quando è caduto il Muro ho reagito e ho proposto di cambiare nome al Pci. Alla mia proposta è seguita una discussione».

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