La notte del 12 novembre, quando la città di Venezia è stata “sepolta” dalle acque con una furia inaudita “il Mose si poteva utilizzare e avrebbe salvato la città riducendo i danni che invece abbiamo oggi”. A dirlo è l’ex sindaco di Venezia Paolo Costa, in carica dal 2000 al 2005 e già ministro dei Lavori pubblici durante il primo governo Prodi (1996-98). Che cosa è successo allora? Non è vero come dicono quasi tutti che il Mose non è utilizzabile? Si tratta, secondo l’ex primo cittadino, “di una catena di comando e responsabilità che non è stata messa in atto. Ricordiamoci che secondo la legge il responsabile ultimo della salvaguardia di Venezia è il presidente del Consiglio”. Ecco cosa ci ha detto.



Quando lei era sindaco, tra il 2000 e il 2005, come era la situazione del Mose? 

Il mio rapporto con il Mose nasce prima di diventare sindaco. Quando ero rettore dell’Università “Ca’ Foscari” nel 1995 il sindaco dell’epoca, Massimo Cacciari, mi aveva chiesto di far parte del comitato internazionale di esperti che avrebbe avuto il compito di valutare l’impatto ambientale del progetto Mose. Insieme a me un francese, un olandese, un cinese e un americano. Il governo dell’epoca aveva infatti stabilito di fare questo progetto. Cominciammo a lavorare, poi nel novembre 1996 Prodi mi chiamò a fare il ministro dei Lavori pubblici. Lasciai la commissione ma paradossalmente ne diventai di nuovo interlocutore perché era responsabilità del ministro dei Lavori pubblici.



A questo punto cosa succede?

Nel luglio 1998 la commissione conclude i lavori dicendo che il Mose aveva impatto ambientale positivo e che serviva per difendere dalle mareggiate eccezionali. Attenzione, questo è il punto. Il Mose non viene pensato per il problema dell’acqua alta, ma per le situazioni eccezionali. Per la Basilica di San Marco infatti si era pensata una protezione speciale per le piccole inondazioni.

Il Mose finalmente si può costruire?

Nell’ottobre 1998 il governo Prodi cade e termina il mio ruolo di ministro. Il governo successivo, quello D’Alema, vede il ministro dell’Ambiente, Ronchi, spinto dal mondo ambientalista che lo sosteneva, a contestare che la procedura di impatto ambientale fosse corretta. Decide che deve essere lui a occuparsene, non più il ministero dei Lavori pubblici. Ecco quindi il primo stop al progetto.



Quanto dura?

Si perdono tre anni, perché il ministero dell’Ambiente decide che il Mose non va bene. Solo nel 2001 il governo Amato decide che invece il Mose va bene e si riparte.

Partono finalmente i lavori?

Si comincia a fare qualcosa di esecutivo, poi nel 2003 si pone la famosa prima pietra, evento molto enfatizzato da tutti. È adesso che io divento sindaco, nel 2000. Siamo costretti a fare alcune modifiche per non uccidere il porto, ma niente che blocchi i lavori. Nel 2005 torna Cacciari con l’idea che il Mose non va bene: una commissione di suoi esperti aveva trovato alternative e ci si ferma di nuovo. Parte la discussione tra il sindaco e il governo, il Prodi 2, che si chiude solo nel 2007 circa, perdendo altri due anni, e si decide di andare avanti con i lavori. A questo punto si sono già persi molti soldi quando nel 2014, con lo scandalo delle tangenti, arriva la mazzata finale.

Cosa succede?

Tutti si vergognano del tempo perso e dei soldi buttati via e meno se ne parla meglio è. Si fanno due operazioni. Nella prima vengono nominati dei commissari da parte di Cantone (Anac), commissari della società che esegue i lavori, con il compito di dare trasparenza, di risanare l’immagine, ma dell’opera quasi non ci si preoccupa. Contemporaneamente si decide anche di punire il magistrato alle acque togliendogli le competenze e trasferendole alla città metropolitana di Venezia. Ci sarebbe dovuto essere un nuovo commissario che avrebbe avuto bisogno di un decreto attuativo apposito da parte del governo, ma dal 2014 questo non è mai stato fatto.

Un fatto gravissimo, come mai?

Colpa di dubbi costituzionali. In Italia, sempre, davanti ai dubbi tutto si ferma. Alla fine facendo il conteggio abbiamo perso sette anni. Si perde di vista l’obiettivo, che non è avere barriere per non mettersi gli stivali: il Mose serviva per situazioni estreme come quella che si è verificata adesso, difendere Venezia dalla mareggiata, non dall’acqua alta.

Quindi? Il Mose è comunque inattivo, no?

No, perché a mio avviso quella sera almeno tre barriere, quelle al Lido e quella a Chioggia potevano essere alzate, magari di 30 gradi e non di 70. Avrebbero quanto meno interrotto o frenato la furia della marea. Non si fa perché nessuno ha il potere di farlo.

In che senso?

Il magistrato delle acque  è in pensione, il commissario speciale doveva essere nominato da otto mesi. Chi comanda? C’è stata una rottura della catena di comando. Se risaliamo alla gerarchia, la legge speciale  su Venezia mette la responsabilità di salvaguardarla in capo al presidente del Consiglio. Questa catena è rotta da anni. Non c’è né la voglia né la capacità di riprenderla in mano. L’unico rimasto sempre inascoltato a farlo presente è stato negli anni il sindaco di Venezia. Insomma un macabro balletto di responsabilità. Come sempre in Italia si esorcizzano gli eventi catastrofici, si spera non accadono, ma non si agisce in prevenzione.

Quando lei faceva parte della commissione di impatto ambientale, aveva capito se il Mose era la soluzione giusta o no?

Certamente sì. L’equivoco che molti alzano oggi, quando si dice è uno spreco, non dicono che il Mose nasce per gli eventi estremi, non per togliere il disagio dell’acqua alta.

Però anche l’acqua alta rovina Venezia, lo sa?

Certo, però oggi siamo davanti a una catastrofe. I supermercati non sono riforniti, i libri delle biblioteche e dell’università navigano nell’acqua, i danni stimati sono di due miliardi di euro. Se ci fossero state le barriere, in un giorno sarebbe stato ammortizzato il 30% del costo attuale del Mose, che è di 6 miliardi.

E adesso? C’è chi dice che il Mose è superato.

Se lo rottamiamo ci troviamo ancora come adesso, senza difese dagli eventi estremi che aumentano sempre di più. Lo dobbiamo tenere e deve esserci qualcuno che lo fa funzionare. Nessuno ha avuto il coraggio di farlo, è mancato il quadro politico-istituzionale per agire.

(Paolo Vites)