In uno stupendo disegno a penna datato 1761, un pittore veneziano, Antonio Visentini, aveva ricostruito con la massima precisione le geometrie del pavimento di San Marco. È una planimetria perfetta in scala 1 a 100 che ci permette di vedere in un solo colpo d’occhio quel tesoro che nella notte tra martedì e mercoledì è finito drammaticamente sommerso dalle acque, ad appena un anno di distanza da un analogo disastro.
Quel pavimento, calpestato nei secoli da milioni di pellegrini e poi di turisti conserva poche tessere e pietre originali. Ma certamente conserva il disegno, che nella gran parte dei casi è stato rispettato nei vari rifacimenti. Ebbene quel disegno ci racconta in modo semplice e chiaro quale sia l’anima e l’identità di Venezia. Cioè la sua bellezza. Il pavimento di San Marco è l’apoteosi della libertà e della molteplicità. È una sequenza di meravigliosi aggregati geometrici, uno diverso dall’altro, ma mai in contrasto tra di loro. Si alternano forme di tutte le forme, pietre di ogni colore, marmi; motivi decorativi sempre diversi chiudono i singoli riquadri.
Non ci sono figure, non si intravvedono sottotesti simbolici: Venezia da una parte omaggia un oriente che non hai digerito l’amore per le immagini dell’occidente; dall’altra dimostra come la somma delle diversità generi bellezza (del resto, com’è stato scritto, San Marco è un capolavoro nato da un’idea greca, stabilizzato con prassi romana e costruito con mano veneta. C’è poi un altro aspetto che il pavimento rivela di Venezia: ed è la leggerezza. A vederlo ricostruito fedelmente in quel disegno del 1761, sembra di avere davanti un meraviglioso tappeto. È davvero un ricamo assemblato con un ritmo danzante, un’articolazione di geometrie libere, quasi un patchwork, sulle quali si può camminare sentendosi leggeri.
Oggi, come sappiamo, quel pavimento è seriamente in pericolo, tradito dalla nuova Acqua Granda dell’altra notte. I procuratori di San Marco, Pierpaolo Campostrini, ingegnere, e Mario Piana, architetto, hanno messo a punto un sistema di sicurezza che mette al riparo basilica e soprattutto il nartece (punto più basso di Venezia) dalle alte maree fino a 1,10 metri. È un sistema che interviene su quel reticolo di cunicoli scavati sotto i pavimenti e che nel 1500 erano stati concepiti per scaricare le acque reflue e quelle portate dal mare. Sono i “gàtoli”, che oggi però per la spinta di maree di ben diversa portata svolgono una funzione contraria: così sono stati messi in sicurezza con dei tappi impermeabilizzati, e sono stati affiancati da pompe che scaricano l’acqua in laguna quando alla marea si aggiungono le piogge.
Ma l’altra notte l’acqua ha sfiorato quasi il metro e novanta e non c’è stato niente da fare. E davanti alla forza di eventi come questi sembra che quel meraviglioso tessuto musivo che è emblema di Venezia, sia anche emblema del suo inevitabile tracollo. Così le polemiche, per lo più inutili, si sprecano. E l’acqua alta diventa solo chiacchiera mediatica.
Ma Venezia in questo momento ha bisogno di tutto meno che di disfattisti e di apocalittici. Ha bisogno di mettere in azione intelligenze in grado di tenerla al riparo anche da un clima che si presenta con manifestazioni così estreme. L’Università di Padova, per fare un esempio, ha messo a punto un progetto per salvare piazza San Marco dall’acqua alta, annunciato poche settimane fa. Se è stato possibile costruire una città “impossibile” come Venezia, deve essere certamente possibile salvarla.