Ai tempi, la fine degli anni 90, nella rivista in cui lavoravo, pensammo di allegare dei cd con brani di etichette indipendenti, per lo più artisti esordienti. Eravamo una rivista musicale indipendente e certo non potevamo permetterci di allegare Bruce Springsteen o Francesco De Gregori come facevano i grandi quotidiani o i mensili della Mondadori. Il tentativo, detto senza vergognarsi, era quello di vendere qualche copia in più. Era il periodo in cui “la musica andava in edicola”, d’altro canto. Nel primo di questi cd c’era un gruppo che, come gli altri, era ancora sconosciuto. Si chiamavano Prozac +. Il nome mi piaceva tantissimo: suggeriva qualcosa di cui nessuno parlava ma che si sapeva ben diffuso nella società, gli anti depressivi. Oggi li prendono tutti, compresi i giovanissimi, la depressione, altro che coronavirus, è la malattia più diffusa al mondo e cresce sempre di più, ma la mutua non passa i farmaci adeguati. E’ una stigmata, segno di gente che si lamenta per nulla, che vadano a lavorare e non rompano. In realtà, il lavoro come è diventato oggi è una delle prime cause di malattia di depressione, ma questo è un altro discorso.
A quei tempi, chiamare un gruppo rock così era quasi una presa in giro del mondo degli adulti, o almeno a me suonava così. Li ascoltai di sfuggita e lasciai perdere, non era la mia tazza di tè, come dicono gli inglesi, per quanto io sia un amante del punk, quello storico, quello degli anni 70. Mi sembravano il solito gruppo italiano che imitava i maestri d’oltreoceano e io ho sempre pensato, perché ascoltare le copie quando posso ascoltare gli originali? Con il tempo ho imparato che ogni generazione ha bisogno di un gruppo o un artista a cui fare riferimento, diventare la propria voce, la propria espressione. E’ giusto così, sono coincidenze e legami cosmici a cui la ragione non può opporsi.



Ieri sera, quando ho saputo della morte di Elisabetta Imedio,  bassista dei Prozac +, malata da tempo di tumore, anzi due, che la sfiga per certa gente non è mai abbastanza, me li sono andati ad ascoltare a fondo. Erano un gran gruppo, considerando il livello medio della musica italiana. Erano davvero punk. Non erano una imitazione dei Green Day, per capirci, il gruppo americano che nello stesso periodo avevano rinnovato i fasti del punk, per quanto con una massiccia dose di pop facile facile. I Prozac + facevano sul serio. Merito del bravissimo chitarrista Gian Maria Accusani soprattutto, capace di sparare fuori riff spaccatutto e allo stesso tempo eleganti, con un gran gusto musicale. E merito di Elisabetta Imenio, cantante credibile, bella voce, bell’immagine carismatica nei video tutt’altro che sciocchi della band. La loro irruzione nella musica italiana fu dirompente per suoni, estetica e tematiche proposte al largo pubblico. Brani come Angelo, ad esempio, irresistibile, o Cagna, dove anticipano la criminalità e la violenza giovanile oggi che i “trapper” giocano a fare lo stesso. Il male come gusto per il male, di chi è saltato dall’altra parte perché non ha nulla in cui credere. Geniale. Ho pensato: mi sono perso qualcosa di valido, ma ho anche capito che per uno cresciuto negli anni 70 con Bob Dylan, Neil Young, Eagles, Elton John e Fleetwood Mac, non avrei comunque potuto relazionarmi con loro. Non avrei capito che questi ragazzi con lungimirante intelligenza stavano profetizzando il disagio di una generazione che, esattamente come quella grunge pochi anni prima, stava crescendo senza Dio, senza ideali, senza utopie, senza ideologie politiche. Restava la musica. Acido acida lo descrive benissimo. Erano davvero lo specchio del loro mondo ed erano avanti, maledettamente avanti. Si dice che un vero artista sia l’antenna della sua generazione e loro probabilmente lo sono stati.



Pochi anni fa, come Sick Tamburo, il loro nuovo gruppo, pubblicarono una ripresa del brano La fine della chemio ed ebbi così modo di ripensare a loro. La canzone, che vedeva la partecipazione di ospiti come Jovanotti, Manuel Agnelli, Tre Allegri ragazzi morti, Samuel, Meg, Capovilla, era un sentito e sincero inno alla bellezza della vita, quando Elisabetta pensava di aver vinto la malattia. “L’ho ascoltata per la prima volta in macchina, mentre andavo all’ospedale – ha raccontato a Vanity Fair – È stato un istante, più potente della chemio, degli antidepressivi, degli incontri con la psicologa e di mille terapie coadiuvanti. Mi è arrivata addosso una bomba d’amore e di speranza, un’energia che mi ha dato gioia, forza e volontà indispensabili per affrontare tutto questo”. Ma la malattia era tornata, bastarda e impietosa: dopo il cancro al seno quello al fegato. Elisabetta aveva una figlia, avuta dal suo matrimonio. Sciolti i Prozac +, Gian Maria e lei avevano dato vita a un gruppo nuovo, i Sick Tamburo, altrettanto validi e ricchi di intuizioni. Ed è qui, tra le loro canzoni, che si trova il saluto più bello che si possa fare a Elisabetta, una canzone di speranza come Un giorno nuovo. Ripensando ai brani del Prozac + sembra impossibile che questi siano gli stessi musicisti. E allora viene da pensare che il sacrificio, oggi che si fa pubblicità anche di un tumore e nulla sembra avere dignità alcuna, che appare così ingiusto di Elisabetta e la dignità con cui l’ha vissuto, abbia lasciato un segno grande di bellezza e di speranza per tutti:



C’è freschezza nell’aria

È una sorta di amara malinconia

È un giorno nuovo però è

Qualcosa di nuovo arriverà, oh sì

Scienziati studiano cose

Tra queste cose ci siamo anche noi

Sconfiggeranno quei mali

Quelli più brutti, quelli più neri

E quei segnali in cielo

Ci spiegano tristezza ed allegria

Non sprechiamo parole

Godiamoci quel che abbiamo qui, oh sì

Pensa a quello che siamo

Pensa quello che saremo