“Ho fatto parlare una madre di 55 anni con i suoi quattro figli, poi mi ha detto: posso morire in pace”. Una infermiera racconta una vicenda davvero toccante, come è già successo in altri casi: d’altronde sono innumerevoli situazioni di questo tipo, che possono diventare note al pubblico solo le trasmette qualche persona che lavora in ospedale, viste le condizioni in cui si muore ai tempi del Coronavirus.
Stavolta il racconto arriva da un’operatrice socio-sanitaria che lavora nei reparti di un istituto oncologico della provincia di Torino. La donna abita a Volvera e ha indirizzato una lettera al sindaco Ivan Marusich, che poi l’ha diffusa sul gruppo Facebook «Sei di Volvera se…». Sabato la donna è stata protagonista e testimone di un momento terribile, assistendo una paziente di 55 anni ricoverata per Coronavirus.
Vedova, precedenti patologie per tumore, madre di quattro figli, era arrivato per lei il momento per dire addio alla famiglia, grazie a una videochiamata organizzata in pochi istanti dall’infermiera e dai quattro ragazzi riusciti a radunarsi per quel saluto.
IL RACCONTO DELL’INFERMIERA
L’infermiera racconta che sabato avrebbe dovuto essere il suo giorno libero, invece arriva la chiamata che la richiama ancora una volta al lavoro per coprire turni: “Il lamento è d’obbligo, non vorresti… ma si fa”. Il viaggio, il passaggio di consegne con la collega stravolta del turno di notte, la lunga e delicata vestizione e poi ecco l’incontro con la paziente.
“Ha un casco sulla testa, si chiama c-pap. Serve per respirare meglio. Non ha molte speranze e il monitor al quale è collegata ne dà conferma. Ma la paziente è cosciente, lucida e orientata nel tempo e nello spazio… ma soprattutto sa che sta per morire. Lo sa, lo percepisce, lo sente”. L’OSS le concede di mangiare due fette biscottate con la marmellata (“Sarà certo il diabete il suo peggior nemico ora?”), poi le due donne iniziano a parlare e la paziente implora di salutare i suoi quattro figli:
“Non ho paura di morire, vorrei solo non soffrire. Ma l’altro giorno uno dei miei figli è venuto a trovarmi e non lo hanno più fatto entrare. È stato obbligato, non una scelta. Non ho potuto vedere più i nipoti, le nuore, nessuno. Io qui, loro a casa. Non ho potuto dir loro quanto bene gli voglio. Li chiamo ogni giorno, li sento che stanno soffrendo perché non possono stare con me fino alla fine”.
L’IDEA DELLA VIDEOCHIAMATA
Durante la visita del medico arriva la telefonata di uno dei figli. La signora dovrà essere intubata presto, il figlio chiede di poterla vedere per un ultimo, breve saluto, ma non è possibile. Il racconto prosegue: “La signora piange disperata. Piange mentre è ancora al telefono con il figlio. La signora ha un cellulare vecchio, non è anziana, ma nemmeno pratica con la tecnologia.
Mentre parla c’è quello sguardo posato su di te, come se volesse chiederti qualcosa, uno sguardo che ti ha trafitto: non sei soltanto un operatore, sei mamma, sei figlia… A un tratto, un’idea: le chiedi di passarle il telefono. Poi dici a quella voce all’altro capo del telefono: radunatevi tutti e quattro ma proteggetevi con le mascherine.
Fatelo prima che potete e poi chiamate in videochiamata questo numero. E gli dai il tuo: vi farò vedere mamma. È poca cosa, ma almeno non sarà una cosa interrotta di netto, e la potrete vedere. Gli dici che sarai lì per altre dieci ore e di richiamare più volte se non rispondo subito”.
L’ADDIO DELLA MAMMA AI 4 FIGLI
Non passa neanche un’ora e il telefono squilla. Inizia la videochiamata: “Tutti e quattro i figli lì… la paziente non se lo aspettava ed è felice. E tu con lei. Si parlano un bel po’, si raccontano, si dicono ti amo. Lei desatura spesso perché si sta affaticando… ma proprio non te la senti di chiedere di chiudere. Meglio che la decisione sia la loro.
La chiamata dura circa mezzora ed è come se un cerchio si fosse chiuso, quello che doveva essere è stato. Lei aveva resistito solo per loro, per vederli, per salutarli. Hai il cuore in mille pezzi. Pensi a te e ai tuoi figli e comprendi tutto… ogni sua preoccupazione. Ti prende la mano, ti dice ‘grazie, veglierò su di te, per quello che hai fatto’. E fai fatica a non piangere”.
Tutto è compiuto: “La paziente si spegne. Decidi di uscire e lasciare ai colleghi il resto. E vedi che, come le procedure prevedono, la cospargono di disinfettante, la avvolgono in un lenzuolo e la portano in camera mortuaria. Sola… sola… I suoi effetti personali messi in triplice sacco nero andranno inceneriti…”.
IL BISOGNO DI RACCONTARE LA MORTE
Il dramma della morte ai tempi del Coronavirus però non finisce con il decesso di un malato. Il racconto infatti prosegue: “È domenica mattina. L’agenzia di pompe funebri è venuta a prendere la salma. Uno solo dei figli presente, a debita distanza. Dà indicazioni all’incaricato e vanno via. La sua macchina svolta a destra, la salma va a sinistra… sola. Non ce la fai, quello è troppo! E se fino ad ora non avevi pianto, ora non ce la fai”.
Da qui il desiderio di scrivere, per far capire a tutti il dramma e quanto sono piccole le lamentele di chi è sano e deve sopportare solo la quarantena. Il Corriere della Sera ieri ha rintracciato l’autrice della lettera, che ha raccontato di avere scritto quella lettera proprio perché “sembra che la quarantena sia un castigo anziché una protezione per ognuno di noi”.
Poi ha aggiunto un ultimo dettaglio, che le era sfuggito stendendo la lettera. Chiusa la videochiamata, la mamma dei quattro ragazzi le ha sussurrato: “Grazie, ora posso andarmene serena”.