“In che cosa spera?”. “In niente”. Sta tutta qui l’essenza dell’ultima intervista (in ordine di tempo) concessa al Corriere della Sera da Umberto Galimberti, filosofo, sociologo, antropologo e psicologo, ma soprattutto autore di un saggio che lo scorso anno – La parola ai giovani – cercò in modo laico di offrire uno spunto al tema che papa Francesco aveva scelto per il Sinodo dei Vescovi.



E le nuove generazioni sono al centro anche di questa nuova chiacchierata col Corriere: Galimberti li ritrae come vuoti, persi, senza ideali, bisognosi di un rito di iniziazione – come il servizio civile – che li restituisca al rapporto con la realtà. È interessante perché ciò che Galimberti descrive come la cura all’apatia dei “duemila”, ossia una comunità, un rito, un rapporto con una tradizione piena di adulti e di speranza, è esattamente ciò che i maestri della sua generazione hanno fatto in modo di eliminare dall’orizzonte dell’occidente. La persecuzione culturale del cristianesimo, avvenuta dapprima come irrisione, poi come screditamento e, infine, come conclamato sinonimo di ipocrisia e oscurantismo ha contribuito a sradicare l’esperienza cristiana dalla società per generare un non-luogo in cui oggi gli stessi carnefici sentono il bisogno di riportare in vita la vittima.



Ma perché, domandiamoci, l’intellighenzia culturale della nostra società, di cui Galimberti è oggi uno degli ultimi “baroni”, ha lavorato tanto per aggredire la stima nel cristianesimo da parte dei giovani? Perché il potere, in fondo ciascuno di noi, ce l’ha tanto con la Chiesa e con Cristo?

Perché ciò che la Chiesa offre al mondo non è un servizio civile o sociale, ciò che la Chiesa offre al cuore dell’uomo è il rapporto con un Mistero che non è funzionale a nessuna ideologia e a nessuna organizzazione umana. La Chiesa pone nel tempo un seme di rivoluzione contro qualunque autorità temporale totalizzante, sia di matrice relativista che di matrice sovranista. In questo senso la Chiesa sarà sempre nemica del potere del mondo.



Ciò che Galimberti auspica come cura per il nostro tempo è ciò in cui lui per primo dovrebbe sperare: l’avvenimento di un fatto che liberi l’uomo dalle contingenze della storia e lo restituisca al tempo del vivere pieno di passione e pieno di umanità. La cosa bella, e fragile al contempo, è che tutto ciò – perché accada – non ha bisogno del permesso di Galimberti, ma già c’è, vive e si muove in mezzo a noi. Basta essere così semplici da non fermarlo, basta avere fiducia che esista nel mondo un potere che non soggioghi le libertà di nessuno, ma restituisca a tutti la possibilità di non diventare la roba di qualcuno, di essere libero.

È un’antica rivoluzione quella che chiede Galimberti. Una rivoluzione che da sempre cerca l’assenso e la passione di tutti. Anche quella di un attempato filosofo italiano che deve decidere se continuare a permanere nel nulla. O lasciarsi afferrare da un’ipotesi di vita capace di spazzar via ogni incertezza per riaprire la storia e il tempo al dono della vita.