Se una coppia viaggia con un bambino e sceglie per la notte una stanza doppia in hotel, dovrà coricarsi necessariamente quando si coricherà il piccolo. Se scegliesse un alloggio Airbnb invece…
Insomma, quando si è in viaggio, perché stringersi in una piccola camera d’albergo, quando si può avere più spazio? Questa la domanda retorica della nuova, effettivamente suggestiva campagna pubblicitaria della piattaforma per gli affitti brevi, realizzata in-house con la collaborazione con Buck Animation, quell’Airbnb nato nel 2007 a San Francisco dalla fantasia di tre giovanissimi designer, Brian Chesky, Joe Gebbia e Nathan Blecharczyk. La loro impresa è cresciuta a livelli vertiginosi (oggi è valutata 73 miliardi di dollari), ospitando 1,3 miliardi di persone attraverso 4 milioni di proprietari di case in 220 Paesi. Un miracolo economico che ha comportato due mutazioni (quella dei padroni di casa in host; e quella delle case di residenza in opportunità di investimento) e almeno tre spiacevolissimi effetti secondari (l’overtourism nelle città d’arte; la fuga di abitanti e imprese artigiane dalle stesse; l’innalzamento generale dei prezzi di locazione). Succede che moltissimi dai centri storici si trasferiscano altrove pur di sfruttare la propria abitazione per affitti brevi turistici, finendo per modellare la popolazione urbana su nuove fisionomie, appunto molto turistiche, stanziali solo per breve-medio termine, tra ambienti magari imbellettati a scopo attrattivo, ma sempre meno attrezzati per una vita “normale”.
La campagna pubblicitaria di Airbnb (che ovviamente finge di ignorare che moltissimi hotel dispongono di camere doppie, studiate appunto per una coppia con bambini) sembra una risposta alle recenti manovre correttive adottate, che impattano sul business, come ad esempio l’obbligo di riscossione diretta e conseguente versamento della tassa di soggiorno degli ospiti (tassa che è finita nell’occhio di un ciclone di contestazioni, visto l’utilizzo dei proventi non sempre legato al comparto turismo). La legge 191 del 2023 ha anche stabilito l’istituzione del Codice identificativo nazionale (Cin), che deve essere assegnato dal ministero del Turismo “alle unità immobiliari ad uso abitativo oggetto di locazione per finalità turistiche, a quelle destinate alle locazioni brevi, oltre che alle strutture turistico-ricettive alberghiere ed extralberghiere”. Una norma pro trasparenza del mercato e contro forme irregolari di ospitalità (ma si segnala che manca ancora l’assegnazione dei codici nazionali e il via ai controlli, che sarebbero dovuti scattare da gennaio). Chi pratica affitti turistici verrà anche ritenuto imprenditore (con tassazione diversa) se destinerà alla locazione breve più di quattro immobili per ciascun periodo d’imposta. Tutto questo, però, sembra non bastare: le grandi città italiane chiedono più poteri per arginare il fenomeno. È allarme in Versilia, alle Cinque Terre, o a Torino, ad esempio, dove risulta che un turista su tre non scelga una struttura alberghiera per il soggiorno. Firenze ha già bloccato le concessioni di nuove licenze per gli affitti turistici nel centro storico, patrimonio Unesco. E Venezia ha assunto posizioni altrettanto radicali, ma accusa anche le liberalizzazioni commerciali, che permettono l’apertura ovunque di esercizi dediti prevalentemente al take away e ai souvenir, trasformando il fragile centro storico in una specie di sagra. E l’elenco potrebbe continuare.
A soffrire, comunque, non è solo l’Italia: i medesimi riflessi negativi del proliferare delle affittanze brevi turistiche sono evidenti ovunque. Come a New York, ad esempio, dove è stata introdotta la Local law 18 (con l’obbligo di presenza dei proprietari durante il soggiorno degli ospiti), una norma che però sta causando risultati contrastanti: da un lato il crollo delle inserzioni Airbnb, dall’altro un record indifferente alle nuove discipline, visto che lo scorso luglio gli Stati Uniti (il dato è federale) si è registrato il maggior numero di notti in affitto breve di sempre. Anche Barcellona è corsa ai ripari, vietando la locazione turistica di stanze singole stanze e obbligando ad esporre il codice della licenza. Lisbona ha bloccato le nuove licenze; Berlino contingenta i giorni suscettibili d’affitto; idem ad Amsterdam; e idem anche a Parigi, dove sono stati intensificati i controlli, anche in vista del pienone per le prossime Olimpiadi; Edimburgo richiede dagli aspiranti host l’ottenimento di specifiche autorizzazioni; Londra ha posto limiti agli affitti brevi di 90 giorni l’anno. Perfino Casablanca, capitale del turismo marocchino, sta preparando una nuova stretta sugli affitti brevi, limitando al 20% la percentuale di appartamenti ad uso turistico negli edifici di nuova costruzione nel centro della città.
Com’è stato più volte sottolineato, la questione è complicata e non vede bilanciamenti a portata di mano: da una parte la libertà di disporre del proprio bene immobile anche per integrare le proprie finanze, dall’altra la perequazione dei trattamenti normativi e fiscali delle locazioni brevi con quelle applicate alle imprese di hotellerie. Ma soprattutto la necessità di calmierare il mercato immobiliare drogato dagli affitti brevi, e di preservare i tessuti dei centri storici da un punto di vista residenziale, commerciale, sociale. Sono sfide complesse, per le quali sarebbe finalmente utile una vera concertazione tra ministeri competenti e stakeholder.
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