La cedolare secca è da sempre una formula a cui in molti fanno ricorso per gli affitti, ma con l’inflazione in molti si stanno domandando se conviene ancora. Il regime opzionale, come ricostruito da Il Giornale, si può applicare ai contratti di locazione di immobili a uso abitativo di qualsiasi tipo, appartenenti alle categorie catastali da A1 a A11 (esclusa l’A10 – uffici o studi privati). Esso prevede il pagamento di imposte prefissate al 10% o al 21% per il proprietario dell’immobile, a prescindere dal proprio scaglione Irpef di riferimento.



Un aspetto rivelante, però, è che ci sono dei limiti. Come ricorda anche l’Agenzia delle Entrate, la cedolare secca implica “la rinuncia alla facoltà di chiedere, per tutta la durata dell’opzione, l’aggiornamento del canone di locazione, anche se è previsto nel contratto, inclusa la variazione accertata dall’Istat dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati dell’anno precedente”.



Affitti con cedolare secca: con inflazione conviene? La risposta forse è no

La impossibilità di chiedere l’aggiornamento del canone di locazione prevista negli affitti con cedolare secca, come riportato da Il Giornale, potrebbe in alcuni casi fare sì che con l’inflazione il suddetto regime opzionale non sia più molto conveniente. È necessario, in tal senso, iniziare a farsi due conti.

Considerando che l’inflazione nel mese di agosto è stata di 8,1%, un proprietario che affitta senza la cedolare secca con un contratto da 500 euro, dunque 6.000 euro annui, adeguando la richiesta al costo della vita, si è ritrovato a guadagnare 6.480 euro annui, di cui 1.496 da versare al fisco, ipotizzando uno scaglione Irpef al 23% in virtù di un reddito di 15 mila euro. In caso di cedolare secca, invece, il proprietario continuerebbe a guadagnare 6.000 euro annui, ma ne dovrebbe versare al fisco 1.260 euro in virtù dell’Irpef al 21%. Il risultato è che guadagnerebbe meno.