Stop ai trasferimenti di civili, ora tocca solo alle ultime truppe americane lasciare l’aeroporto di Kabul. Ma sarebbero almeno 100mila, secondo quanto riportato da Repubblica, gli afghani e gli occidentali che non hanno potuto lasciare la capitale afghana, o perché non inseriti nelle liste, per quanto fossero noti alle diplomazie occidentali, o perché non hanno potuto raggiungere lo scalo. Adesso inizia una fase ancora più incerta. In Afghanistan le forze di intelligence danno per imminente un nuovo attentato di matrice islamista, mentre a Bruxelles, Mosca e Pechino c’è grande preoccupazione per le conseguenze, ancora non prevedibili, del ritiro americano. Il punto di Paolo Quercia, docente di studi strategici nell’Università di Perugia e direttore di GeoTrade.



L’Italia sta tentando di mettere al tavolo del G20 i principali paesi interessati dalla crisi dell’Afghanistan, a cominciare da Russia e Cina. Come valuta le dichiarazioni di Lavrov durante l’incontro con Draghi e Di Maio?

Come una richiesta all’Europa di cambiare registro su sanzioni, diritti dell’uomo ed in generale di avere un approccio di maggiore collaborazione politica con Mosca. La Russia cerca cioè di capire se ci sono margini per incunearsi nel gap transatlantico che la ferita afghana ha aperto.



“Dall’Italia abbiamo ottenuto promesse che al G20 straordinario saranno invitati anche Pakistan, Iran e altri Paesi che non fanno parte del G20” ha detto Lavrov. Sulla carta questo è indispensabile per affrontare il problema; nella pratica potrebbe complicare le cose, visti ad esempio i rapporti tra Iran e sauditi, o la presenza dei principali imputati del disastro, gli Stati Uniti, al cospetto di Russia e Cina?

Vediamo quali paesi si riusciranno a portare al tavolo, e soprattutto quale agenda si potrà sviluppare. Penso che non ci sarà l’Afghanistan e questo già rende l’esercizio piuttosto virtuale. Ma suggerisco di tenere basso il livello dell’ambizione di questi esercizi multilaterali, altrimenti il rischio di fallimento è alto. Questo è un formato che può giocare un ruolo su alcune questioni economiche globali, come è avvenuto dopo la recessione del 2008, ma non mi sembra la sede adatta per affrontare complesse questione di sicurezza, geopolitica e strategia.



Quale sarebbe la soluzione?

Concepire una conferenza internazionale ad hoc. Ma onestamente mi sembra che i tempi non siano ancora maturi. Occorre aspettare gli sviluppi sul campo.

Circolano alcuni punti dell’agenda: diritti umanitari, contrasto al terrorismo, gestione dei migranti o dei profughi che abbandoneranno il paese, congelamento dei fondi. Cosa vuol dire oggi affrontare la crisi dell’Afghanistan?

Penso che prima occorra verificare l’effettività del controllo del territorio dei talebani sull’Afghanistan, se vi saranno forme importanti di resistenza armata, che tipo di governo verrà creato, come esso si muoverà sul tema dei diritti umani e del terrorismo. E sopratutto chi lo riconoscerà. Qui si apre per l’Unione Europea una partita molto complessa. Riconoscerà un eventuale governo a guida talebana o gestirà il rapporto attraverso eventuali intermediari? E quali scegliere?

Nella nostra ultima intervista lei aveva riservato alla Turchia un ruolo di primo piano

La Turchia può essere il nostro middleman, quello che fa il lavoro sporco che noi non vogliamo e non sappiamo fare? E siamo sicuro di voler dare alla Turchia questo ulteriore peso politico verso l’Europa? Purtroppo siamo di fronte all’ennesima grave crisi internazionale che trova l’Europa impreparata e senza una politica estera e di sicurezza adatta alla situazione. Come trent’anni fa nei Balcani, come vent’anni fa l’11 settembre, come allo scoppio del conflitto siriano dieci anni fa.

Quale dovrebbe essere il nostro compito?

Pur riconoscendo l’importanza del dossier afghano, non dobbiamo dimenticare che il principale teatro per noi resta la Libia e più in generale il Mediterraneo. Dobbiamo stare attenti principalmente agli effetti indiretti della crisi afghana che possono avere ripercussioni nel Nord Africa ma soprattutto nel Sahel e nelle altre aree dell’Africa per noi rilevanti, come il corno d’Africa, dove operano formazioni jihadiste. E poi dobbiamo rassegnarci al fatto che dopo il collasso afghano in tutti teatri il rapporto con gli Usa assumerà un altra dimensione.

Che cosa intende?

Non possiamo ancora dire come cambierà. Intanto siamo tornati indietro a trent’anni fa, a prima che Bill Clinton avviasse la stagione delle guerre americane in tempo di pace. Tre decenni il cui bilancio ora ci appare fortemente negativo.

Afghanistan, probabile rotta migratoria di terra verso l’Europa, Italia, ruolo della Turchia. Come vede questo intreccio di problemi?

Questa rotta migratoria già esiste. In Europa ci sono già mezzo milione di afghani. Dopo la fine dell’esperimento di un governo filo-occidentale e l’avvento dei talebani al potere questa comunità resterà e crescerà. I Paesi europei come la Germania, che avevano da qualche tempo avviato i rimpatri volontari assistiti di migliaia di rifugiati afghani nonostante le precarie condizioni di sicurezza del Paese, dovranno ora sospenderli a tempo indeterminato visto che il nuovo regime di Kabul non è compatibile con nessuno standard umanitario europeo. La rotta coinvolge in maniera significativa Paesi come l’Iran, che ospita oltre 3 milioni di profughi afghani, e la Turchia, porta del corridoio balcanico e dunque dell’Europa. Paese con cui il bilancio migratorio è già in deficit per Bruxelles.

Qual è il fattore che ritiene più significativo del fallimento strategico americano?

Onestamente il ritiro militare e politico ci sta. Ritengo che ormai fosse l’unica scelta sensata, che Obama aveva incardinata su questi binari dopo aver fallito il controllo del Paese con il surge militare del 2011. Come ci sta anche il negoziato diretto con i talebani aperto da Trump a Doha; perfino la scelta di trovarsi un interlocutore politico nel Mullah Abdul Ghani Baradar, l’attuale leader de facto del Paese fatto liberare dalle prigioni pakistane, può avere una sua logica. Quello che non capisco è perché lasciare così tante armi e sistemi d’arma di ogni tipologia e natura ad una struttura statuale così debole ed una leadership così frazionata e divisa su basi etniche.

Di fatto si è consegnato ai talebani un arsenale militare che mai avrebbero potuto mettere insieme con i loro mezzi.

E perché lasciare loro carta bianca praticamente su tutto, anche quando non rispettavano la parola data, visto che hanno intensificato gli attacchi contro il governo afghano proprio mentre si trattava a Doha? Un ritiro parzialmente combattuto avrebbe offerto migliori termini di resa. Capisco la voglia di uscire da un conflitto che non rende più sul piano strategico. Ma le grandi potenze si vedono anche nel modo con cui sanno perdere le guerre: e questo modo di perdere la guerra afghana mette qualche preoccupazione sulla solidità del pensiero strategico americano. Ma qui entriamo in un terreno incognito e serviranno mesi se non anni per dare un giudizio compiuto sull’operato statunitense.

(Federico Ferraù) 

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