Chiuso l’accesso dell’aeroporto di Kabul agli afgani, permesso solo agli stranieri. Lo ha detto il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid nella seconda conferenza stampa da quando gli studenti coranici hanno preso il potere chiedendo agli americani di non incoraggiare gli afgani a fuggire perché “abbiamo bisogno di medici e persone qualificate”. È il quadro di una situazione caotica, al limite del collasso. Al G7 straordinario che si è tenuto ieri Regno Unito e Germania premevano perché gli Stati Uniti prolungassero l’evacuazione a dopo il 31 agosto, la data ufficiale concordata con i talebani, ma non è stato possibile convincere gli americani. Senza la presenza americana sul terreno, sarà impossibile per gli altri Paesi mantenere un ponte aereo da Kabul. Una situazione che Toni Capuozzo, inviato di guerra ed esperto di geopolitica, definisce in questa intervista “un film a cui assistiamo in diretta da Ferragosto che riprende le fotografie della fuga da Saigon nel 1975 dando l’immagine a tutto il mondo del crollo dell’impero americano”. Per questo motivo, più che per la paura di possibili attentati, ci ha detto ancora, “gli americani vogliono chiudere il più in fretta possibile questa tragedia e non andranno avanti dopo il 31 agosto”.



Il G7 straordinario convocato nelle scorse ore ha visto al centro del dibattito la richiesta inglese e tedesca agli americani di prolungare l’evacuazione da Kabul. Biden ha confermato il suo no, lei pensa avesse senso farlo?

Credo che sia stata una messa in scena. I talebani hanno detto che protrarre il ponte aereo significherebbe protrarre l’occupazione americana e la formazione del nuovo governo che dicono sarà inclusivo. Così dicendo hanno fatto un favore alla Casa Bianca.



In che senso?

La Casa Bianca vuole chiudere questa esibizione in diretta di un vergognoso fallimento. È da Ferragosto che assistiamo ogni giorno alla fuga dall’ambasciata di Saigon (1975, ndr) ripetuta in continuazione, con però i volti dei bambini in lacrime e le urla delle donne. Quello a cui assistiamo a Kabul è la ripetizione di quanto accaduto nella guerra in Vietnam tutto in un colpo solo.

Cioè?

La bambina vietnamita in fuga con la pelle bruciata dal napalm, il tetto dell’ambasciata americana, i boat people. È un film, non sono più le fotografie che avevamo visto allora. Stiamo guardando una diretta sul crollo dell’impero americano.



Il Pentagono ha detto che rimanere ancora a Kabul avrebbe comportato il rischio di attentati, è così?

Mi erano giunte voci su questa possibilità prima che se ne parlasse pubblicamente. Certo, l’Isis è in grado di farlo, ha interesse a mettere il bastone fra le ruote ai talebani intervenendo su un palcoscenico mondiale che dia loro pubblicità. Secondo me però è un altro alibi per chiudere quanto prima questa tragedia, gli americani vogliono staccare la spina a questa agonia in diretta.

Questo scontro inciderà sui rapporti tra Europa e Stati Uniti?

No, l’Europa compresi i 900 soldati inglesi che si trovano all’aeroporto di Kabul non ha né le forze né l’abitudine politica di poter gestire una situazione come questa senza gli americani. Quello americano è un crollo che trascina con sé tutti quanti. Credo che Boris Johnson e la Merkel abbiano insistito sul prolungamento dell’evacuazione per smarcarsi dal punto di vista morale e accontentare le proprie opinioni pubbliche, ma se guardiamo le dichiarazioni del ministro della Difesa inglese parla addirittura di martedì o mercoledì prossimo come ultimo giorno di presenza a Kabul, anticipando il 31.

Il nostro ministro degli esteri Di Maio ha detto che gli italiani se ne andranno quando se ne andranno gli americani. Siamo sempre al loro traino?

Una volta tanto ha detto una cosa vera, ma scontata.

Lei è stato in Afghanistan, conosce quel popolo. Quali sono le sue previsioni? Le promesse dei talebani sono credibili o sono una farsa?

I talebani dovranno fare i conti con un popolo che non è lo stesso di vent’anni fa. L’occidente in questo suo fallimento ha comunque sparso delle briciole di libertà, di diritti civili e una volta che hai assaporato la libertà è molto difficile accettare una totale cancellazione. Prima di capire se i talebani sono gli stessi di vent’anni fa, e non lo sono per ragioni generazionali, sono qualcosa di diverso, non necessariamente migliori ma diversi, teniamo conto che gli afgani non sono più quelli di prima.

Abbiamo visto manifestazioni di donne per le strade, nel Panshir si sta radunando una resistenza armata che comprende anche molti elementi dello scomparso esercito afgano. Intende questo?

Quando parliamo di generazioni lo facciamo pensando alla demografia avvilita dell’occidente, in Afghanistan invece c’è una schiera impetuosa di milioni di giovani che sono vissuti in questa parentesi, disastrosa da tanti punti di vista, ma comunque indimenticabile, della presenza occidentale.

Qualcosa di buono abbiamo fatto, quindi?

Anche involontariamente. Per gli afgani solo aver visto militari donne, ricordo di averne viste molte, o dottoresse nei villaggi che curavano sia uomini che donne, ha inciso nella mentalità. La forza dell’esempio, per quanto tu sia straniero, è qualcosa che apre delle crepe nelle società chiuse e conservatrici.

Quindi lei crede in un Afghanistan in grado di opporsi al ritorno dei talebani?

Credo che non possiamo ambire a portare via tutti gli afgani, piuttosto coloro che hanno lavorato con noi e che rischiano la vita perché l’intelligence talebana ha dei conti aperti con loro. Allo stesso tempo dobbiamo guardare all’Afghanistan che si oppone, anche con le armi in mano, ad esempio nella valle del Panshir.

In conferenza stampa il portavoce talebano ha detto chiaramente che cercano un compromesso nella situazione del Panshir, che tradotto significa che non hanno alcun controllo di quel territorio, è così?

Esattamente. Siccome l’Occidente ha fallito, non possiamo dichiarare fallito anche l’Afghanistan.

(Paolo Vites) 

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