Lentamente, come da un coma indotto, sta emergendo la consapevolezza dell’orrore che sta accadendo a Kabul e in tutto l’Afghanistan. A venti anni di distanza, corpi precipitano nel vuoto ma non più dalle Torri gemelle in fiamme: dalle ruote degli aerei sui quali hanno disperatamente cercato di fuggire da Kabul.
La tragedia della guerra è inguardabile, ma ancora di più quella di una sconfitta; e ancora di più se si tratta di una sconfitta subìta per mano di un movimento come quello talebano che ha in spregio tutto ciò che noi siamo: rispetto per la vita, per la donna, per i bambini, per la libertà. Addio al cacciatore di aquiloni, addio alla musica, addio a tante cose che rendono bella la vita.
Le assicurazioni dei talebani sono, in tutti i sensi, stupefacenti: “L’Afghanistan non coltiverà più oppio” (quando il paese sforna il 93% della produzione mondiale); “non daremo ospitalità ai terroristi” (quali? Contro chi? Magari non contro Russia e Cina. Difficile, dopo una vittoria così epocale, resistere alla tentazione di imitare al Azzam, il vero fondatore di Al Qaeda che aveva intrapreso una lotta di liberazione di tutti i musulmani oppressi); “sarà valorizzato il ruolo delle donne nel rispetto della sharia” (mentre Zarifa Ghafari, sindaca della provincia di Maidan Wardak, aspetta di morire senza paura). Intanto i talebani sparano sui manifestanti che protestano contro l’abolizione della bandiera nazionale, tanto per far capire come si fa a “dialogare”.
I capi talebani hanno capito benissimo cos’è l’Occidente: un vecchio rincoglionito che si è svegliato di colpo e che ha bisogno di essere rimesso a nanna. Crediamoci pure a questi signorini, così possiamo tornare a dormire tranquilli. L’Occidente è (o meglio siamo) come vent’anni fa quando non volevamo ascoltare il comandante Ahmad Shah Massoud, il “leone del Panjshir”, che chiedeva aiuto contro i talebani. Non l’abbiamo ascoltato ed è accaduto l’11 settembre. Due giorni prima un attentatore suicida aveva assassinato una delle più nobili figure dell’islam moderno che abbiamo fatto in fretta a dimenticare.
Così come continueremo a voler dimenticare quella ragazzina che ha inviato quell’ultimo video sui social: “a nessuno importa di noi solo perché siamo nati qui. Scompariremo dalla storia”. Quando Zarifa e suo marito saranno assassinati la notizia sarà relegata in un trafiletto degli esteri.
Nausea. Disgusto. Anche di se stessi e della propria inutilità. Disgusto della stolidità degli italiani, degli europei e di tutto l’Occidente che, a Kabul, ha perso ogni credibilità. Perché questa disfatta porterà di nuovo sangue e distruzione anche a casa nostra.
Tutta la storia della “Global War on Terrorism” (Gwot) lo dimostra. L’Occidente è colpito da attentati quando si formano jihadisti; gli jihadisti si formano dove vi sono campi di addestramento (sotto l’aspetto professionale o operativo) o dove vi è un emirato islamico (sotto l’aspetto culturale e motivazionale). È accaduto in Afghanistan tra il 1996 e il 2001: è seguita un’ondata di attentati che è progressivamente diminuita per riprendere nuovamente con la costituzione dello Stato islamico fra Iraq e Siria (Isis). Con la differenza che la Gwot in Afghanistan è stata condotta dalla Nato e dagli Stati Uniti che vi hanno profuso risorse e vite umane per venti anni senza avere la lungimiranza di applicare in modo costante le procedure e i criteri delle Military Operations Other Than War (Mootw). Mentre la lotta contro lo Stato islamico è stata condotta soprattutto da siriani e iraniani con l’appoggio potente e spregiudicato della Russia.
L’Occidente ha perso perché non ha avuto la capacità di sopportare perdite: perché l’adozione massiva e indiscriminata di regole di ingaggio di guerra anziché di polizia portano al miope calcolo di riduzione delle proprie perdite. Criteri che attori spregiudicati possono adottare, ma non il civile Occidente col suo decantato rispetto della vita umana. Se vogliamo dimostrare di possedere un “moral high ground” (un “terreno dominante dal punto di vista morale”) dobbiamo accettare perdite maggiori per salvare quelle dei civili coinvolti. Se in una casa vi sono dei civili bisogna mandarci degli uomini, non eliminare il problema con un missile, e questo non lo dice il papa o i pacifisti d’accatto che, oggi, non sanno cosa rispondere a quella ragazzina del video se non che è sempre colpa dell’America e non di quella masnada di tagliagole che sta sommergendo Kabul.
Il colonnello John Poole ha scritto questo passo interessante a chiusura del suo Tactic of the crescent moon, Posterity press 2004): “I fanti, in futuro, useranno la minima forza necessaria e concederanno misericordia ogni volta che sia possibile. Non permetteranno a sé stessi di odiare. All’opposto seguiranno il paradossale consiglio di Cristo: amare il proprio nemico. Qualcuno potrà compiere l’estremo sacrificio ma nessuno permetterà che la propria anima sia macchiata dal disonore. A soldati come questi non potrà essere negata la vittoria” cit. in La quarta guerra mondiale: origine e cronache di Alberto Leoni, Ares 2006).
Lo stesso Poole ricordava come le nazioni islamiche contro l’Occidente abbiano perduto tutte le guerre convenzionali e vinto tutte le guerriglie. Perché per vincere una guerriglia ci vuole costanza e sacrificio, non recriminazioni pacifiste; volontà di non andarsene, non piani di ritiro delle truppe che, se pacificano l’opinione pubblica occidentale, deprimono la resistenza dei popoli che l’Occidente sostiene.
Il popolo afgano che non è riuscito a darsi governanti onesti e capaci è condannato a morte. L’Occidente, vista la sua conclamata debolezza, è condannato ad affrontare sfide di attori internazionali sempre più determinati e privi di scrupoli.
Da dove ricominciare allora? Dagli uomini e donne, soprattutto militari, che hanno dato la vita per la speranza di una nazione.
Penso a Pat Tilman, ucciso nel 2004 da fuoco amico in un scontro a fuoco che il Pentagono cercò invano di mascherare e contraffare.
Penso al capitano Nichola Sarah Goddard, caduta in battaglia a Kandahar nel 2006, la prima donna canadese uccisa in combattimento.
Penso al maggiore dei bersaglieri Giuseppe La Rosa che, nel 2013, si è sacrificato deliberatamente, assorbendo col proprio corpo lo scoppio di una bomba a mano lanciata nel veicolo da un ragazzino di undici anni.
Ma soprattutto penso a Safia Amajan, capo dipartimento per le questioni femminili nella provincia di Kandahar, alla quale il governo afghano aveva negato la scorta e che è stata assassinata nel 2006.
Un punto da dove ricominciare forse c’è ancora. Il figlio del comandante Massoud è tornato a trincerarsi nella valle del Panjshir come aveva fatto suo padre. Un uomo così superiore agli imbelli capi occidentali, preoccupati solo di intercettare il consenso della maggioranza, da dover necessariamente morire. Ma la preghiera di Ahmad Shah Massoud possa essere ripetuta da ognuno di noi, di ogni religione. Sarà questa l’unità che porterà alla vittoria contro la brutalità che tenta di sommergerci: “Ringrazio, come dobbiamo fare tutti, l’Onnipotente che, ancora una volta ci ha donato la sua forza e la sua gentilezza. Egli ci ha dato una nuova occasione per salvare il nostro popolo e per salvare il nostro paese. Non esiste missione migliore di quella di salvare il proprio popolo dagli oppressori (leggi: talebani), da uomini così intolleranti e lontani da Dio. Noi lottiamo per la libertà. Per me la condanna peggiore sarebbe vivere in schiavitù”.
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