Dopo la conclusione del primo conflitto afgano, che trovò modo di concretizzarsi con gli accordi di Ginevra del 1988, ci furono varie implicazioni impreviste e che presentano numerose ed evidenti analogie con il conflitto che si è concluso con il ritiro americano.
Incominciamo con le cifre e con i costi della prima guerra in Afghanistan. Le cifre delle vittime sono stimate tra le 800mila e 1,24 milioni e cioè il 9% dell’intera popolazione. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità furono circa 1,5 milioni gli afghani che rimasero invalidi. Per quanto riguarda i costi che dovettero sostenere i russi, 13mila furono le vittime e 49mila i feriti.
Passiamo adesso alle altre implicazioni del primo conflitto afgano. La seconda conseguenza fu la destabilizzazione dell’intera regione, destabilizzazione che determinò 6 milioni di profughi.
La terza implicazione riguarda i danni che l’Afghanistan subì a causa di questa guerra: parliamo di circa 50 miliardi di dollari.
Veniamo adesso alle conseguenze in relazione all’intervento degli Stati Uniti. Nonostante il finanziamento americano giungesse a 600 milioni di dollari all’anno, dopo il ritiro dei russi esso si ridusse profondamente fino a cessare nel 1992. Questo determinò il rafforzamento dell’integralismo islamista e dall’altro lato determinò un considerevole aumento dei flussi di fondi e di armi anche a favore del Pakistan. Stiamo naturalmente alludendo alla questione dei missili Stinger: 300 di questi scomparvero e si ipotizza che questi missili furono presi dal Pakistan, venduti al mercato nero o addirittura rimasero in Afghanistan. Un’altra conseguenza fu la decisione da parte americana di favorire i volontari internazionali per il jihad afghano. Infatti alcuni dei cosiddetti arabi afghani furono finanziati e addestrati dalla Cia, dall’MI6 e dall’Isi pakistano, mentre altri operarono grazie a risorse reperite in forma privata; ma quello che è certo è che la Cia, l’MI6 e l’intelligence pakistana contribuirono a creare e ad addestrare islamisti professionalmente pronti a combattere, ma non furono poi in grado di contenerli, aprendo un vero e proprio vaso di Pandora.
Un’altra conseguenza, del ritiro dell’Urss come dell’attuale ritiro dell’America dall’Afghanistan, fu il rafforzamento dell’islamismo militante. In entrambi i casi sia durante la prima guerra in Afghanistan che durante la seconda sono state proprio le fazioni dell’islamismo radicale a rafforzarsi. Ieri i mujaheddin, oggi i talebani.
Un’altra importante conseguenza fu la convinzione da parte degli islamisti radicali che fosse necessario e possibile sconfiggere il potere politico e militare dell’Occidente; ciò è dimostrato dal fatto che numerosi veterani della guerra afghana presero parte sia alla guerra civile algerina sia alla radicalizzazione dell’opposizione politica islamista in Egitto negli anni 90. Ma ciò vuol dire anche che la guerra in Afghanistan certamente contribuì all’internazionalizzazione dell’islamismo militante. Di fatto, gli Stati Uniti – e i loro alleati – finirono per contribuire involontariamente alla creazione di una rete di militanti altamente addestrati.
Ecco dunque che la questione talebana si palesa in tutta la sua paradossalità: sfruttando l’assenza di coesione sociale e l’esperienza maturata attraverso la guerriglia e l’azione terroristica – nonostante fossero stati presentati dall’amministrazione Reagan come combattenti per la libertà -, i talebani divennero invece i maggiori esponenti di un sistema teocratico repressivo e violento.
Cosa stanno a dimostrare le conseguenze del primo conflitto afgano? Dimostrano innanzitutto che i pianificatori politici e militari non hanno preso in attenta considerazione le implicazioni su medio-lungo termine dei loro interventi militari ma hanno pensato soltanto a una vittoria rapida e con poche perdite umane; in secondo luogo dimostra come gli Stati Uniti – unitamente ai loro alleati – facciano enormi investimenti nel campo della tecnologia militare ma trascurino completamente uno studio attento degli aspetti storici ed economici delle guerre che contribuiscono ad alimentare o in nome dell’anticomunismo o in nome della libertà.
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