Una seconda conferenza stampa, dopo quella di lunedì scorso, per costruire una narrazione più plausibile del grande disastro americano. Davanti ai giornalisti, accompagnato dalla vicepresidente Kamala Harris e dal segretario di Stato Anthony Blinken, Biden ha difeso contro ogni evidenza la bontà della strategia americana sulla ritirata dall’Afghanistan, pur ammettendo di non poter sapere come andrà a finire. Nella serata di ieri ha poi avuto una telefonata con Draghi, nella quale i due hanno parlato delle prospettive da adottare in sede di G7 e G20 sulla crisi afghana.



Nel frattempo, la Cina si è mossa con grande anticipo per approfittare del fallimento Usa. Già prima della caduta di Kabul, alcuni inviati dei talebani, a fine luglio, si erano incontrati in Cina con il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi. Una mossa esplorativa per sondare un futuro rapporto tra i due paesi, una volta che i talebani avrebbero preso il potere. E la Cina, nelle ore immediatamente successive alla conquista del potere, ha dichiarato di essere pronta a dialogare, tenendo aperta (con Mosca) la propria ambasciata. In realtà, come ci ha detto Francesco Sisci, sinologo, editorialista ed ex corrispondente de La Stampa in Cina in questa intervista, “la Cina è molto preoccupata di quanto sta succedendo in Afghanistan. Per vent’anni gli americani avevano garantito la stabilità del paese, ma adesso chi la garantirà? Liberandosi di Kabul, Washington si può concentrare sul fronte indo-pacifico contro la Cina, lasciando a Pechino l’onere di gestire una situazione instabile con in più il problema del terrorismo delle popolazioni islamiche cinesi da sempre sostenuto dai talebani”. Ma tutto questo, ci ha detto ancora Sisci, “pone un problema importante e delicato anche per l’Italia”.



Partiamo dalla conferenza stampa di Biden. Qual è la sua prima impressione?

Il presidente americano mi è apparso più sicuro dell’altra volta, ma sembra anche che la questione afghana sia ancora in fieri, con tanti pezzi ancora per aria e incerti. Il presidente ha detto che i contatti con i talebani sono costanti, ma l’impressione è che Washington, giustamente, non si fidi troppo della loro parola.

Biden ha detto che “in nessun modo avremmo potuto lasciare l’Afghanistan senza quello che state vedendo adesso”. La notizia non è che c’è confusione in Afghanistan, ma che c’è confusione al vertice dell’amministrazione Usa. Che ne pensa?



Credo che ci sia appunto nervosismo. Questo è secondo me indicativo della fretta di chiudere questa partita per concentrarsi su un’altra. Nel caotico ritiro americano da Saigon nel 1975 i protagonisti ufficiali erano i nord vietnamiti, ma dietro di loro c’era l’Urss. Oggi il convitato di pietra è la Cina. Oggi quindi, come allora si respira un clima di guerra fredda intorno a questo ritiro.

La Cina è davvero pronta a mettere le mani sull’Afghanistan come si legge da più parti?

Prima di affrontare la questione cinese è importante dire come quanto sta succedendo colpisca anche il nostro paese.

Perché?

L’Afghanistan è il passato, la Cina è il presente e il futuro. Ma l’Italia si è trovata in questa crisi impreparata per due problemi. Sull’Afghanistan l’Italia ha seguito la Nato con lealtà, ma anche senza pensarci troppo. Perché siamo andati e con quale obiettivo? Siamo andati semplicemente al traino americano, non abbiamo posto questioni strategiche e non abbiamo chiesto nulla, ma neppure abbiamo dato un contributo di intelligenza politica alla vicenda.

Siamo stati sempre al traino della Nato…

Sì, ma quando poi, come adesso, il piano originale va in fumo, noi non ci capiamo più molto. Questo problema è moltiplicato dal fatto che c’è un’altra questione, quella della Cina.

Ci parli di questa.

È chiaro che l’America esce dall’Afghanistan per concentrarsi sulla Cina. In Italia da almeno due anni sulla Cina non si capisce nulla, grazie agli sbandamenti dei due governi Conte. Adesso, aggiungendosi la vicenda afghana, è come una maionese impazzita, in cui i nostri politici parlano dell’Afghanistan con una leggerezza come se ne potrebbe parlare al bar.

Tutto questo cosa comporta?

Un problema grave per l’Italia. Quello che importa al mondo e all’America in questo caso, ancora più della solidità economica dell’Italia, è la solidità politico-diplomatica e questa forse sta venendo meno.

In che senso?

L’Italia, che fra pochi giorni ospiterà il G20, deve essere molto prudente, perché se cento miliardi in più di disavanzo sono perdonabili, errori politici e diplomatici sulla questione Afghanistan-Cina lo sono meno.

Come evitarli? Tutto il mondo in questi giorni si trova spiazzato davanti a quello che sta accadendo.

Quello che sta succedendo in Afghanistan è sballato, non è solo sbagliato, è di più: è sballato. Il ritiro delle truppe Nato non è stato ben programmato. Sappiamo oggi che non è vero che il governo americano non sapesse che il governo afgano sarebbe crollato in pochi giorni. L’ex capo della Cia della zona ha rivelato che aveva sottoposto un paio di anni fa la realtà del crollo in pochi giorni. Il problema era che il presidente Biden voleva anche giustamente gestire il ventennale dell’11 settembre senza essere più in Afghanistan. Non sappiamo cosa dirà l’11 settembre, però terrà un discorso importante sulla questione, dobbiamo aspettare.

Sicuramente l’America non sta uscendo bene da quanto accade, non crede?

C’è una vittoria in termini di immagine dei talebani sull’America, ma è da prendere con le pinze. Nel 1975 il Vietnam del Nord cacciò gli americani. Oggi, 40 anni dopo, il Vietnam è un partner nello sforzo americano di contenere la Cina, sono state offerte basi navali in territorio vietnamita. L’America cacciata 40 anni fa è ritornata sulla scena. La storia non si giudica in pochi secondi. Lo stesso vale per la Cina, che oggi apre ai talebani e così facendo apre a una partita complicata.

Pechino dice che non ha problemi ad incontrare i leader talebani, ma questo non significa che sia disposta ad investire in un paese nel quale si prevede instabilità perlomeno nel breve termine. C’è poi l’aspetto del sostegno o dell’ospitalità data a gruppi che in Cina sono considerati terroristici, un tema dirimente nei futuri rapporti tra Pechino e Kabul.

La Cina è estremamente preoccupata. La presenza americana ha garantito una stabilità per vent’anni, adesso chi garantisce questa stabilità? Il Pakistan non sa garantirla. I servizi segreti pachistani, l’Isi, hanno un rapporto dialettico con i talebani. Non sono le marionette dell’Isi, e il Pakistan di fatto ha ceduto loro pezzi del suo territorio al confine con l’Afghanistan. Se il Pakistan non ha il pieno controllo dei talebani, chi altro può averlo? La Cina, se interviene pesantemente mandando soldati, rischia di essere sopraffatta come l’America. Se interviene troppo poco, i talebani, che non sono un’organizzazione leninista ma un insieme di bande alleate solo temporaneamente tra loro, potrebbero volersi allargare e visti i legami storici potrebbero cercare di penetrare nella Cina islamica, oltre che nelle repubbliche islamiche ex sovietiche. Sono questioni aperte, che stanno invitando la Cina a essere molto prudente.

Non essere più in Afghanistan facilita o meno gli Usa sul fronte della sfida con la Cina nell’Indo-Pacifico?

Da un punto di vista di realismo politico li facilita molto. Hanno passato un loro problema ai cinesi e quindi hanno due vantaggi. D’altro canto, c’è un danno di immagine importantissimo. Lo scandalo dei giornali occidentali per la gestione della ritirata da Kabul è parte dei valori occidentali e americani, è parte dell’anima americana. Non si può semplicemente trascurarla per pensare solo al realismo politico. Questo tema deve essere affrontato. Del resto, il realismo deve temperare e dare concretezza all’idealismo, altrimenti si va nel mondo dei sogni. Abbiamo visto il realismo americano in azione nei giorni scorsi. Sarà importante vedere nelle prossime settimane cosa dirà l’America per rilanciare la sua anima. Il ventennale dell’11 settembre potrebbe essere l’occasione.

(Paolo Vites) 

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