Quello che tristemente sta accadendo in Afghanistan sembra appartenere al genere Commedia degli Inganni. E così tutto il male di oggi affonda le radici nelle intenzioni di guerra dichiarate vent’anni fa, all’epoca dell’invasione americana in armi da parte dell’allora Presidente George Bush junior a seguito del truce attentato alle Torri Gemelle.
Dietro una forte spinta emotiva e il consenso di un’opinione pubblica allargata si decise di punire il Paese che aveva protetto e alimentato i terroristi di Al Qaida e dato asilo al loro capo Osama Bin Laden – autore del vile attacco al simbolo del potere economico dell’odiato Regno di Satana -, poi scoperto e ucciso dall’intelligence e dalla tecnologia statunitensi.
Fuori dai piedi, dunque, i talebani: quei fondamentalisti che in nome della sharia e delle presunte tradizioni islamiche avevano sprofondato l’Afghanistan in un oscuro Medio Evo negando alla popolazione i più elementari diritti. E covando nel suo seno la serpe che avrebbe dato al mondo occidentale, per il tramite del suo maggiore esponente, un morso velenoso e mortale.
Qui nascono i primi equivoci: che tipo di intervento si porta nel cuore dell’Asia? Non si può parlare esplicitamente di guerra per non disturbare la coscienza delle anime belle che dappertutto – e soprattutto in Italia – di quel termine non vogliono nemmeno sentire parlare. Si va lì, allora, per costruire un nuovo Paese. Per esportare la democrazia che è cosa bella.
E nessuno può negare che messa così la ritorsione dell’Occidente appaia più comprensibile. Il sacrificio di uomini e risorse (tanti, troppe) si può giustificare perché messo al servizio di intenti nobili e condivisibili. Anche il nostro contingente parte con la missione di costruire e mantenere la pace. Diventa un dettaglio che per riuscirci occorra talvolta imbracciare il fucile.
Gli anni passano, le priorità cambiano. Si dovrà pur vedere l’uscita dal tunnel nel quale ci si è infilati. Ma qual è adesso l’obiettivo da dichiarare? Annientare i talebani perché non possano più nuocere o, piuttosto, aiutare gli afghani a edificare una nuova nazione su principi democratici? L’urgenza di svincolarsi al più presto suggerisce di convergere sulla prima ipotesi.
E, poi, non è forse vero che gli alleati dell’Occidente hanno insegnato ai locali come difendere conquiste civili e territorio? Hanno o no istruito un esercito autoctono di trecentomila persone perché possa contrastare l’eventuale riscossa dei talebani desiderosi di riprendere il potere e imporre la loro legge? L’illusione che quei combattenti siano diventati più tolleranti dura poco.
Prima Barack Obama, poi Donald Trump, infine Joe Biden – gli ultimi tre presidenti degli Usa – lavorano dunque per lasciare in fretta quel terreno nefasto sempre più simile alle sabbie mobili che già avevano inghiottito in Vietnam, 45 anni prima, orgoglio e sogni di gloria. L’ipocrisia regna sovrana: se il compito dell’invasione si riduce a fornire alla popolazione afghana i meri strumenti per proseguire in autonomia il processo di laicizzazione, il più è fatto.
Alla prova del nove, all’abbandono dello scenario orientale – in modo colpevolmente pasticciato, peraltro – le poche certezze si sbriciolano esattamente come accade al governo e all’esercito regolare dell’Afghanistan che hanno letteralmente disertato il campo di battaglia, senza colpo ferire. Altro che resistenza, per i custodi della sharia è una passeggiata.
Ora si grida allo scandalo. Ed è pacifico che occorra compiere tutti gli sforzi possibili per evitare rappresaglie su chi ha collaborato con l’America e i suoi alleati in questi quattro lustri di confusa presenza nell’area. Al di là delle scelte specifiche che si faranno – e l’Europa non può esimersi dal giocare un ruolo centrale – resta un insegnamento sul quale occorre riflettere.
Lo accenna il politologo americano Edward Luttwak in collegamento nei giorni caldi del ritiro con gli studi televisivi di La 7 nella trasmissione In Onda: solo una politica schiettamente coloniale avrebbe potuto evitare il disastro. Solo se le forze occidentali si fossero sostituite a quelle afghane in tutti i gangli del governo la campagna avrebbe potuto avere un esito diverso.
Ma così, nell’illusione di aver trasferito sentimenti abilità e tradizioni a un popolo che a stragrande maggioranza continua a sentire diversamente, l’epilogo non poteva essere che quello al quale stiamo assistendo. L’esportazione della democrazia e l’amore per la libertà sono cose troppo serie per poter essere affidate al mondo fatato delle (buone?) intenzioni.
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