La storia di Loqman Niazai, afghano residente da alcuni anni a Cremona, è stata raccontata quasi giornalmente dal quotidiano La Provincia grazie a Rosanna Piaceri, presidente di Immigrati Cittadini di Cremona, che è stata sempre in contatto con lui. Loqman è stato protagonista di una avventura incredibilmente coraggiosa. Siccome la moglie 25enne e il figlio di due anni vivevano ancora a Kabul, è partito dall’Italia proprio nel momento peggiore, quando i talebani hanno invaso la capitale afghana e decine di migliaia di persone si sono riversate all’aeroporto in cerca disperata di fuga, per portarli via. Si è dovuto nascondere per giorni in un villaggio, perché “i talebani ci davano la caccia”, come ci ha raccontato in questa intervista. “Hanno ucciso davanti a me un medico che vaccinava le persone”. Grazie a un visto concesso dalle autorità italiane, Niazai è riuscito a partire, ma “mio fratello e i suoi tre figli non ce l’hanno fatta. Erano all’aeroporto quando c’è stato l’attentato, era proprio lì vicino e ha perso tutti i documenti”. Adesso spera che i talebani aprano quei corridoi richiesti dall’Occidente, perché possa recarsi in uno dei paesi confinanti.



Sei riuscito a portare via tua moglie e tuo figlio, sei stato davvero coraggioso. Hai ancora dei parenti che sono rimasti in Afghanistan?

Mio fratello e i suoi tre figli sono ancora lì. Quando c’è stato l’attentato, ha perso i documenti nel caos, tutti fuggivano per la paura, passaporti e documenti sono andati persi.



Eri lì anche tu? Come funzionavano le evacuazioni?

Stavamo sotto il sole tutto il giorno, schiacciati uno con l’altro, il sole ci bruciava la pelle. C’erano soldati canadesi, americani e anche italiani che uscivano fuori due volte al giorno per quindici minuti, chiamando le persone che avevano il visto regolare, soprattutto coloro che avevano collaborato in questi vent’anni con gli italiani. 

Cosa farà tuo fratello adesso? Hai notizie?

Non so se il governo italiano aiuterà chi vuole ancora andare via e fuggire nei paesi vicini, come il Turkmenistan o il Pakistan. Non sappiamo se i talebani permetteranno loro di andare via.



Ma sei in contatto con le autorità italiane?

No, siamo in quarantena in un campo profughi per afghani allestito dalla Croce Rossa, non siamo riusciti a parlare con nessuno che lavori con l’ambasciatore per poter dare il nome di mio fratello.

Quanti profughi afghani ci sono nel campo di Avezzano?

Siamo più o meno settecento persone, divisi in diversi campi.

Come sono le condizioni?

Difficile, siamo in troppi, manca il cibo, bisogna fare lunghe code per mangiare, speriamo di uscirne presto.

Quando sei tornato a Kabul che cosa hai fatto?

Mi sono dovuto nascondere, avevo paura. Avevo appuntamento il 17 agosto per ottenere i documenti, ma quel giorno l’ambasciatore italiano e i suoi collaboratori sono stati trasferiti all’aeroporto, dove era impossibile entrare. Eravamo bersaglio dei cecchini, così sono andato via, ci siamo rifugiati in un villaggio con mia moglie, nostro figlio e mia madre. Siamo stati nascosti tutto il tempo al buio, era troppo pericoloso. Un giorno sono venuti i talebani e hanno ucciso il medico del villaggio che voleva vaccinare le persone.

Come mai?

I talebani lo facevano anche quando c’erano gli americani, uccidevano tutti i medici e gli infermieri, non volevano che curassero la gente. Perseguitano tutti quelli che lavorano come medici.

Che ne pensi del tuo paese adesso che sono tornati al potere i talebani?

I capi dei paesi occidentali dicono che non bisogna fidarsi dei talebani. Anch’io la penso così, i talebani dicono una cosa oggi e domani cambiano tutto.

Vi sentite traditi dalla fuga degli occidentali?

Non è giusto che siano andati via dopo vent’anni di guerra, in cui sono morte tante persone, anche italiani. Hanno abbandonato tutto quello che stavano facendo, sinceramente non so cosa dire.

Però sei riuscito a portare via la tua famiglia, sei contento? Hai speranza di ricominciare una vita con loro?

Sono contento, ma solo a metà, perché non siamo riusciti a portare via tutta la famiglia.

(Paolo Vites) 

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