È difficile individuare anche nei classici del pensiero politico islamico una nozione unitaria di “emirato”. La casistica storica può tratteggiare un ventaglio di esempi concreti irriducibile a sistema. Quanto sta succedendo a Kabul e dintorni può avere degli effettivi motivi di parallelismo con la secolare esperienza dell’emirato di Creta, col fiorente e per certi versi poliedrico e sfaccettato emirato di Bari o con la convulsa vicenda dell’emirato del Caucaso, in pieno XX secolo, mentre l’impero ottomano declinava portando in Armenia – anzi: contro gli armeni – la sua spirale più velenosa?
Bisogna perciò esser chiari: quando oggi si discute di emirato come dispositivo costituzionale si sta tratteggiando un’evenienza politico-normativa che non può pedissequamente essere raffrontata con gli emirati della grande conquista araba tra il primo e il secondo millennio di storia cristiana. Né si può credere che riguardi gli stessi processi socio-giuridici del profondo Sudest Europa all’alba del secolo breve. Nel caso dell’avanzata medievale si trattava di una formula appropriata e cogente di organizzazione della società che talvolta riuscì persino a far convergere interessi di conquistati e conquistatori, convertiti e prescelti, invasori e invasi. Quanto alla dinamica novecentesca, è verosimile che la caduta di avamposti del genere facesse il paio con la omologa ma ben più tragica caduta dell’ultimo grande programma universalistico dell’islam politico suprematista.
Non ci aiuta a comprendere la natura ormai accentuatamente polisemica del lemma “emirato” nemmeno l’analisi della sua odierna veste costituzionale. Si definiscono “emirati” il Kuwait, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti, ma i tre casi hanno maggiori affinità sul piano storico-sociale che non su quello normativo formale: Stati indipendenti sottrattisi nei decenni al controllo britannico, oggi completamente rimodellatisi intorno a un’economia i cui fondamenti sono ancora una volta quelli dell’industria petrolifera ed estrattiva. Differente però la denominazione degli organi dello Stato, il peso degli investitori stranieri, il trattamento delle minoranze religiose e la loro composizione interna.
Gli Emirati Arabi Uniti praticano un sistema confederale di impronta teocratica che “premia” i rapporti di forza locali – ivi compresa la lunga stagione espansiva di Dubai – ma che non trova uno specifico fondamento giustificativo in una tradizione interpretativa teologica sull’esercizio del potere o sull’organizzazione della comunità.
Vi sarebbe allora la tentazione di ritenere ormai la denominazione di “emirato” una scatola vuota che muta continuamente al mutare dell’azione storica di chi lo instaura e impone. Rivolgendosi del resto all’etimologia della parola, essa promana dalla radice semantica del comando, dacché appunto amir significa alla lettera il “comandante”. Siamo in presenza di una traiettoria concettuale non diversa da quella poi assunta dalla qualifica di “sultano” (colui il quale ha la forza, l’autorità legittima al suo esercizio) e, in parte, dal “califfo” (il reggente vicario che succede al governo dell’interesse comune). Persino in questo caso, dove è più evidente la concezione del potere umano nei termini di un vincolo devozionale promanante dall’unico Dio, si tratta sempre di nomi che sul piano giuridico non qualificano un sistema costituzionale in modo esaustivo, ma che sul piano decisionale concreto riassumono in sé la forza, la potenza e la ragione del comando.
Da questo punto di vista, quando talvolta si omologa l’emirato alla nozione euro-occidentale di principato, si commette una forzatura di traduzione: più che “principato” – il princeps che comanda entro un tempo, un luogo e una giurisdizione – dovrebbe parlarsi di “dominato”, l’inerenza a una relazione stabile di comando basata sulla soggezione.
Quanto sta accadendo in Afghanistan può essere riletto in effetti assecondando la predetta prospettazione. I talebani (gli “studenti” musulmani emersi come soggetto politico collettivo dopo le sommosse antisovietiche e la caduta del protettorato di Mosca) puntano da sempre alla costituzione di un emirato come entità politico-amministrativa radicalmente opposta a quella dello Stato, ritenuto istituzione artificiale, eteronoma e fittizia. Lo Stato è usurpazione in radice, è una creazione fasulla: i talebani non sono interessati alla modernizzazione giuridica o all’individuazione di una nuova esegesi scritturale.
Spesso tramandano imposizioni, precetti e dottrine la cui origine è largamente dispersa nel tempo e non potrebbe più rivendicare alcun vincolo di correttezza coranica. Nei fatti, la loro massima intransigenza ha base etnico-linguistica e comportamentale, più che religiosa.
Il primo collante del consenso talebano, peraltro non modesto come lo si immaginerebbe in Occidente, è dato dal gruppo etnico pashtun. Questo singolare intreccio di tradizionalismo pre-islamico tribale e stretta appartenenza religiosa costituisce un caso molto particolare di fondamentalismo: gli conferisce una legittimazione sociale immediatamente riconoscibile imponendo un’egemonia che dal piano dei gruppi demografici passa poi al controllo dei villaggi, delle città, delle amministrazioni e delle minoranze.
Non è affatto casuale che i talebani neghino l’afferenza all’islam alle antiche comunità sciite afghane. Queste ultime praticano un misticismo non privo di suggestioni sincretiste incompatibile con l’ortodossia talebana, non riconoscono i codici della cultura pashtun, sono trasversali ai gruppi etnici. Più che scismatici, per i talebani, gli sciiti presenti sul territorio sono oppositori e miscredenti.
La costituzione dell’emirato non si risolve e conclude nella conquista militare, avrà bisogno di sedimentare per essere colta analiticamente. Sembra però di poter dare per acquisite alcune linee di tendenza nella fase in atto. I talebani si imposero paradossalmente rompendo alcuni schemi che si stavano consolidando: si proponevano difensori delle identità locali contro le ingerenze estere, si opponevano al neutralismo falsamente universalista del potere costituito, predicavano l’obiettivo dell’emirato non raramente ricorrendo ai temi e ai termini della propaganda per le utopie rivoluzionarie.
Cosa faranno adesso? Se si immetteranno nel controllo assunto esigendo pienezza di poteri rischiano di contraddire la base stessa della loro dottrina, che si pregiava d’essere insieme popolare nel radicamento e attentamente ricercata nella professione di fede e nell’essenzialità delle questioni di culto. Le nuove generazioni tra i talebani sono chiamate alla prima vera faglia della loro recente escalation: la vocazione del movimento a purificare le scorie della società e dello Stato potrà sopravvivere coerentemente alla transizione di quel movimento dall’opposizione ai poteri illegittimi all’assunzione di un potere assoluto e indiviso?
Da come i fatti risponderanno a questo interrogativo dipende la sorte di decine di milioni di persone. Molto più che dal comando di un solo emiro. Non sorprendentemente, il capo attuale, Akhundzada, pur venendo dall’ambiente culturale che ha sempre preferito dar reverenza ai capi tribù che agli imam, oggi sceglie di definirsi “Amir al-Muminin”, comandante di tutti i fedeli. Gli oppositori sono avvisati: chi si ribella non è un politico, quanto piuttosto un eretico.
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