Avevano promesso un governo “inclusivo” in cui sarebbero state presenti anche delle donne. Ma, come dicono gli afgani, i talebani dicono una cosa oggi e fanno l’opposto domani. Il primo governo dell’Afghanistan dopo l’abbandono degli Usa e degli alleati Nato, un governo transitorio in attesa di quello definitivo, è una congerie di terroristi e ricercati dall’Fbi: a ricoprire il ruolo di primo ministro Mohammad Hassan Akhund, inserito dall’Onu nella lista dei terroristi, come vice il mullah Abdul Ghani Baradar, fondatore dei talebani insieme al mullah Omar il cui figlio è ministro della Difesa. E ancora: ministro degli Interni Sarajuddin Haqqani, figlio del fondatore della rete Haqqani, gruppo di insurrezionalisti islamici attivo in Afghanistan e Pakistan e molto vicino ai talebani.
“Non poteva essere diverso” ci ha detto in questa intervista Paolo Quercia, analista di relazioni internazionali. “Era difficile trovare dei leader che non avessero pendenze con la giustizia internazionale. I talebani poi non possono far vedere a gruppi fondamentalisti come l’Isis di essere troppo morbidi, compiacenti con gli americani e l’occidente. Potrebbe essere un’operazione di facciata”.
Ci troviamo davanti a un governo che ha come primo ministro un personaggio che appare nella lista delle Nazioni Unite dei terroristi e un ministro degli Interni su cui pesa una taglia di 5 milioni di dollari da parte dell’Fbi. Come sarà possibile dialogare con un governo come questo?
Diciamo che era complicato per un gruppo, i talebani, che ufficialmente era considerato da anni terrorista o vicino ai terroristi, trovare dei leader che non avessero pendenze con la giustizia americana o con il comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite. Ma bisogna anche dire che si tratta di un passato anche di vent’anni fa, oggi bisogna lavorare con quello che c’è.
Quindi si cancella il passato?
Il grosso problema non sono tanto questi personaggi, quanto capire se sia un governo che abbia l’effettivo controllo del paese. Il grosso problema dell’Afghanistan è infatti l’ingovernabilità, da cui poi deriva anche il terrorismo stesso o la possibilità di ospitare i terroristi. Ricordiamoci che negli accordi di Doha una delle condizioni più importati era che non si lasciasse il territorio a disposizione di gruppi terroristi.
Si può dire che si è tentato di trasformare i talebani in una sorta di islam politico?
Con questi personaggi si sono fatti patti, il cui presupposto era che avessero un autentico controllo del territorio, cosa che non è affatto scontata. Il fatto che il gruppo prescelto per governare sia totalmente talebano, cioè non inclusivo di tutte le realtà etniche afgane, potrebbe essere dato proprio per evitare una frammentazione al potere. Si tratta sostanzialmente di un governo già deciso due anni fa. Lo stesso Baradar, l’uomo che ha condotto i negoziati con gli americani e firmato i patti, era stato scarcerato dalle prigioni pachistane su richiesta americana. Questo governo è un punto di arrivo del disimpegno dell’occidente già deciso. Non credo che si potesse fare diversamente. Credo che si punti ad arginare i terroristi di oggi sdoganando parzialmente i nemici di ieri e addirittura ambienti contigui ai terroristi di ieri. Un gioco certamente pericoloso.
Resta il fatto che abbiamo a che fare con terroristi, o ex terroristi, no?
Sì, sicuramente con dei guerriglieri, in alcuni casi con banditi ed anche con terroristi, ma quest’ultima categoria è sdrucciolevole. Uno dei problemi più grossi per i talebani è che per certa parte del mondo islamico, quello fondamentalista, essi appaiono troppo vicini all’occidente, soprattutto agli americani con cui hanno fatto gli accordi di Doha. I talebani rischiano di passare come apostati, collaboratori degli americani; e questo toglierebbe loro legittimità e con essa la capacità di governare il paese.
Infatti l’Isis li considera traditori dell’autentico islam.
Ed è per questo che non escluderei che l’inclusione di figure volutamente pregiudicate sia in qualche modo, oltre che una necessità, un atto voluto per non dare adito alle accuse di vicinanza con gli Usa. Ma il dialogo proseguirà sotto banco.
Sarebbe la prima volta che succede una cosa del genere?
No, l’abbiamo già visto in passato con tanti regimi che a parole combattono l’occidente ma dietro le quinte coltivano diverse forme di collaborazione. Gli equilibri con alcuni parti del mondo islamico si devono tenere al coperto, spesso nel vantaggio della stabilità interna. Per noi era il caso con la Libia di Gheddafi.
Intanto l’Italia ha trasferito la propria ambasciata da Kabul a Doha, nel Qatar. Qual è il senso politico-diplomatico di questa operazione?
Penso sia una decisione temporanea in attesa di vedere che tipo di governo sarà e se sarà possibile avere delle relazioni. In Qatar i talebani hanno un ufficio politico sin dall’epoca di Obama. È il posto dove dialogare sottobanco senza riconoscere direttamente il nuovo governo afgano. bisogna capire se questo rapporto è solo geografico, cioè si dialoga direttamente in Qatar con gli emissari dei talebani, o se bisogna passare attraverso la mediazione politica del governo del Qatar.
Cosa dovrebbe fare l’Italia?
Io non escluderei a priori l’opzione di tornare a Kabul quando ci saranno le condizioni per cercare di salvare parte del lavoro fatto in questi vent’anni, un enorme lavoro che sarebbe ingiusto abbandonare completamente.
Talebani permettendo…
Certamente. E certamente non nei prossimi mesi. Ma non ci dobbiamo creare preclusioni a priori pensando ancora all’occidente come ad una categoria ideologica. noi per il nostro ruolo nel Mediterraneo rappresentiamo nell’Unione Europea e nella stessa Nato uno dei paesi più dialoganti con il mondo musulmano, un fattore antico, un’eredità storica dell’Italia che credo debba riflettersi nelle nostre scelte.
Abbiamo anche sentito un portavoce talebano pronunciare qualche parola di apertura verso il nostro paese.
Appunto. Dunque verifichiamo con pazienza i primi passi di questo governo, senza preclusioni, e sopratutto vediamo come i paesi musulmani si muoveranno verso il nuovo governo di Kabul. Siamo anche la sede del Vaticano e questo è un fattore non secondario per un governo islamista, ammesso che di questo parliamo e non di un’altra versione di un emirato jihadista. Chissà che non saremmo più utili agli Usa o alla Ue con un approccio più dialogante che di rigida chiusura. Pensiamoci due volte prima di buttare il lavoro di vent’anni di politica afghana. E sopratutto, stiamo attenti a non dare troppo potere agli intermediari.
(Paolo Vites)
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