Il Brownstone Institute ha pubblicato in questi giorni un’interessante riflessione sull’impatto – ignorato – dell’agenda green promossa dall’ONU sulla sicurezza alimentare dei paesi in via di sviluppo, ipotizzando che un’adozione forzata e massiccia dei dettami ambientali potrebbe essere all’origine di una vera e propria carestia globale. L’analisi – non a caso – parte dal ricordare che fino a qualche anno fa il tema della lotta contro la fame era stato eretto a missione principale delle Nazioni Unite, con risultati anche positivi soprattutto a cavallo tra il 2000 e il 2015.
Ma ancor prima di arrivare all’agenda green dell’ONU – e alla presunta carestia – una prima ‘batosta’ al tema della sicurezza alimentare è arrivata con lo scoppio in Occidente della pandemia Covid: dal marzo del 2020 tutti i popoli sono stati blindati in una serie di lockdown e limitazioni con l’effetto – certamente innegabile – di limitare la diffusione del temutissimo virus, ma anche di condannare alla povertà “centinaia di milioni di vulnerabili che hanno perso i loro magri redditi“.
Il risultato è stato quello di incrementare – secondo un rapporto della SOFI – “di almeno il 10% [il numero] di persone che soffrono la fame: individui, famiglie e comunità con pochi o nessun sostegno che hanno improvvisamente perso lavoro e reddito, in particolare nelle economie informali (..) a causa del panico causato da un virus che minaccia prevalentemente gli anziani nei paesi occidentali“; il tutto – peraltro – nella più totale “mancanza di interesse da parte dei media [e] delle Nazioni Unite”.
Dal covid all’agenda green dell’ONU: i dettami che proteggono l’occidente e mandano in crisi le economie emergenti
Chiuso il capitolo covid con i risultati sulla sicurezza alimentare che abbiamo appena visto – continua l’analisi del Brownstone Institute – negli uffici dell’ONU si è fatta sempre più strada l’agenda green, passata inizialmente dalla promozione di “una dieta sana e sostenibile” per ridurre “le emissioni di Co2” abbattendo il consumo di “carne, grassi, latticini e pesce” a favore di “un apporto proteico prevalentemente proveniente da piante e noci“; o in altre parole “una dieta del tutto innaturale rispetto a quella per cui i nostri corpi si sono evoluti”.
Il primo tema che emerge – dunque – è quello di una sorta di “colonialismo culturale” dietro all’imposizione di diete da parte dell’OMS per promuovere l’agenda green, sovvertendo “millenni di esperienza e disponibilità, produzione, lavorazione e conservazione del cibo” e soprattutto ignorando l’imprescindibile “diritto all’autodeterminazione dei popoli” che – volenti o nolenti – include anche “lo sviluppo culturale”.
Brownstone Institute: “ONU ignora l’importanza degli alimenti animali per i popoli poveri”
L’agenda green dell’ONU – insomma – promuove “l’obiettivo di mantenere le emissioni di gas serra al livello preindustriale”, ma al contempo ignora anche che “applicato all’agricoltura in un contesto di costante crescita demografica, porterà inevitabilmente a una riduzione della diversità, della produzione e dell’accessibilità alimentare” il tutto a danno – soprattutto – “delle culture alimentari tradizionali [basate] su carni naturali e latticini”.
Inoltre – come se non bastasse ancora – secondo la lunga analisi anche l’obiettivo di “ridurre l’uso dei combustibili fossili ridurrà senza dubbio la produzione alimentare e impedirà a miliardi di persone di migliorare il proprio benessere economico” partendo da quelle che il Brownstone Institute definisce “determinazioni centralizzate e insindacabili riguardo alla salute delle persone e al clima terrestre”.
L’ONU e tutte le varie agenzie collegate – in primis OMS e FAO – starebbero (insomma) promuovendo un’agenda green scorretta, che metterà in difficoltà i popoli per dettami che – come nel caso del covid – colpiranno soprattutto le economie in via di sviluppo; ignorando nei loro studi e nelle loro analisi sia “l’elevato valore nutrizionale di grassi animali, carne e latticini“, sia “il rispetto dei diritti fondamentali e delle scelte degli individui e delle comunità” con l’esito che mentre l’Occidente sviluppato potrà investire risorse su diete ‘green’, i paesi emergenti patiranno sempre di più la fame.