Autore dell’ultima generazione tra i più amati e anche tra quelli maggiormente di rottura rispetto al panorama letterario italiano, Daniele Mencarelli esordisce a teatro con la sua prima opera, Agnello di Dio. “Sono sempre stato molto affascinato dalla scrittura teatrale” ci ha detto in questa intervista. “Credo che la scrittura sia sempre teatrale, c’è sempre una messa in scena e un accadimento. L’Agnello di Dio nasce dall’amicizia con Piero Maccarinelli, regista e autore, e dalla volontà di dare forma teatrale a un’idea che avevo da tempo, che poi è l’idea che a me sta sempre a cuore e cioè il tema del rapporto fra generazioni, tra figli e padri”.
L’opera, che esordisce il 26 aprile al Teatro Sant’Afra di Brescia, dove resterà in scena fino all’8 maggio, è incentrata su quattro figure soltanto: uno studente, colpevole in un tema di aver detto di rifiutare tutto quello che genitori e scuola gli hanno inculcato, il padre, la preside, una suora di un prestigioso istituto scolastico cattolico, e un’altra suora, la segretaria, una figura apparentemente dimessa che nella scala gerarchica occupa l’ultimo posto. Il ragazzo viene messo in qualche modo sotto processo da queste figure autoritarie, vittime, dice Mencarelli, di “analfabetismo affettivo”, incapaci di comprendere il suo bisogno esistenziale di verità e di bellezza.
Un tema antico, di sempre, “che trova una possibilità propria nella suorina anziana, ricca di una fede quasi infantile, piena di amore, una figura che non dismette la propria offerta innamorata nei confronti del mondo”.
Agnello di Dio è il tuo esordio teatrale: cosa ti ha portato in questa direzione e che differenza c’è, se c’è, con lo scrivere romanzi o poesie?
Mi ha sempre affascinato la scrittura teatrale, credo che la scrittura sia sempre teatrale. Vengo da vent’anni di poesia che sembra una lingua diversa, ma in realtà c’è sempre una messa in scena e un accadimento. Questa cosa è nata dall’amicizia con il regista Piero Maccarelli. Ho dato forma teatrale a un’idea che avevo da tempo, che poi è l’idea che a me sta sempre a cuore e cioè il tema del rapporto fra generazioni, tra figli e padri.
Si può dire allora che è un po’ il compimento del tuo percorso?
Non saprei. Oggi c’è l’idea dell’artista come un cattedratico che opera in una sola disciplina. A me piace molto la sperimentazione, penso a Pasolini che poi è arrivato al cinema, mi piace molto il rapporto fra parola e immagine, anche perché mi sono occupato di questo per vent’anni. Credo che continuerò a sperimentare in altre forme e discipline.
Lo scontro tra figure istituzionali e autoritarie e giovani è uno scontro che esiste da sempre. È proprio contro questo mondo che i giovani del ’68 si scagliarono, azzerando tutto e lasciando, secondo me, un grande vuoto educativo che oggi tocchiamo con mano, con la distruzione della famiglia e della scuola stessa. Cosa ne pensi?
Indubbiamente il ’68 è stato un momento di grande rottura che ha prodotto poco. Se guardiamo a quegli anni fa quasi nostalgia vedere quanta disponibilità c’era alle utopie declinate in modo più o meno ideologico. Ma sono d’accordo che sia stato un momento che non ha prodotto qualcosa di duraturo anche se questo è da sempre destino dell’uomo. Nel mio testo non c’è un vincitore e un vinto, c’è un’inquietudine sana e potente nel senso migliore, una potenza che potrebbe diventare utile ma non viene capita perché c’è un’autorità e una serie di convenzioni che si difendono.
Cosa può rompere questo muro? Cosa può far sì che questi due mondi si incontrino in qualche modo?
Un altro dato che emerge è che il padre e la preside sono meno consapevoli del ragazzo. Anche il grande bluff dell’età non sta in piedi: oggi ci sono ragazzi molto più maturi dei loro genitori e anche dei loro nonni. Questo rapporto è destinato all’incomunicabilità. C’è però una quarta figura, questa suorina segretaria che testimonia una forma di fede quasi infantile piena di amore e che mostra una via possibile che è la via di chi non dismette la propria offerta innamorata nei confronti del mondo.
Nel tuo testo manca la figura della madre. È forse questa suora che ne indossa i panni?
È una bella chiave di lettura che non ho mai accostato, però sì, lei è l’unica figura veramente materna che protegge il ragazzo in quanto tale e non per instradarlo verso qualcosa di predefinito. Lei vuole solo il bene dei ragazzi e in questo volere anche infantile lei si rende disponibile.
Il ragazzo rappresenta la grande bellezza della gioventù, quello stupore e quel desiderio che perdiamo diventando adulti, assorbiti nel meccanismo della società. Come si può conservare senza reprimerlo?
È il grande tema dell’uomo, che accetta le convenzioni anche perché sono più comode rispetto alla tensione di un vivere più consapevole. Io credo che esista un modo per far rinascere questa disposizione che naturalmente abbiamo rispetto all’esistenza.
Sarebbe?
Riconoscersi nelle grandi discipline dell’arte. Sono uno straordinario modo per riconoscere una parte di noi che più o meno volontariamente dimentichiamo. Il padre del ragazzo, malgrado sia un uomo di successo, dimostra la codardia umana che esiste oggi più di ieri, ma anche una grande ignoranza, perché non intercetta nulla del figlio che sia umano e non sia anche già detto.
Quindi come si fa a tenere aperto quel desiderio di bellezza che abbiamo dentro, quel desiderio che la società dei consumi annichilisce, come diceva già tanti anni fa Pasolini?
Ho molto a cuore un altro termine che è natura, ciò che è nato con noi. L’unico modo credo sia ogni giorno dialogare con la propria natura che è drammatica, piena di contraddizioni e di ferite, è la natura con cui nasciamo. Oggi più che mai abbiamo dei ragazzi che su questo tema sono disposti a dialogare, nonostante la grande cappa ideologica del 900 che ci opprime ancora. Basta guardare alle contrapposizioni italiane sul tema della guerra in Ucraina e ne abbiamo una prova tragicomica. Mettere al centro quel tragico e meraviglioso dramma di amare e morire perché alla fine queste due cose non andranno mai d’accordo.
Quindi, come dice il bellissimo titolo del tuo ultimo libro, “tutto chiede salvezza”?
Esatto. Quando a un uomo si pone questo tema diventa difficile vendergli quello che vuole il potente di turno, altrimenti un uomo vuoto si riempie facilmente. Su questo Pasolini è stato profeta.
(Paolo Vites)
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