Un buon modo per chiudere il duro 2020 e iniziare un 2021 mendicando letteralmente slancio e fiducia, è quello di entrare con Agnese Valle nella sua personale visione di ricostruzione umana e antropologica.  “Ristrutturazioni” è quel tipo di parto artistico che ha richiesto il giusto tempo per arrivare a destinazione ed essere assimilato sul campo, in questo tempo e in questa parte di mondo come la conosciamo ora.



Un disco che a differenza dei due predecessori – “Anche Oggi Piove Forte …” e Allenamento al Buonumore  quest’ultimo ormai risalente al 2016 – non insegue l’equilibrio aritmetico tra leggerezza e impegno, attestandosi piuttosto sulle coordinate di un racconto teso e conflittuale come i tempi esigono.  Lo stesso progetto grafico a cura della sorella Giulia Valle con le belle foto di Giorgia Tino, ritrae momenti riconducibili a questo desiderio di ripartire, ma con un prezzo da pagare.  C’è tutta l’esigenza di muoversi e tornare alla vita che convive con il segno contradditorio del volto coperto da un lenzuolo, quasi a tradire angosce e timori di questo pur necessario cambio di prospettiva.



Sensazioni miste che rimangono attaccate al corpo e alla mente scorrendo titoli e immergendosi nell’ascolto del disco.  E’ la stessa cantautrice romana che ci guida in quello che lei stessa definisce come “un concept album senza esserlo”, quasi un anomalo radunare le tessere di un percorso dall’iniziale intimo riconoscimento di smarrimento di Palmo su palmo, passando attraverso le successive tappe di un cammino di ostacoli, cadute e difficoltose risalite.  La grigia melanconia del più recente singolo Cortocircuito con gli accenti rock del chitarrismo di Marco Cataldi, rivela il codice identificativo di un lavoro all’insegna di un cantautorato classico scritto e arrangiato in maniera scorrevole e filante, ricco o minimale a seconda del singolo episodio o del particolare umore, per un lessico originale che raggiunge il suo apice nei brani di grande respiro.  Si prenda la collaborazione con Pino Marino nella bellissima Come la punta del mio dito.  In un format da ballata epica questo singolo anomalo che ha anticipato l’album di circa due anni, ci riporta in un suono senza tempo tra le delicatezze luccicanti del piano, del vibrafono, delle chitarre e del clarinetto “d’epoca” della protagonista.  Ciliegina sulla torta la suggestiva e toccante regia di Giulia Valle nel relativo videoclip.  Passi in cui la nostra si confronta a viso aperto con il grande cantautorato, che affiora anche in altri due momenti di forte pathos come Di carne e di pietra e la confessione degregoriana di L’ultima lettera dell’astronauta.  Episodi che segnano il percorso in bilico tra sentimento di perdita, nostalgia metafisica e scoperta di nuove possibilità. 



Ci sono poi momenti di denuncia come la vaudeville dagli accenti morriconiani de Il banchetto dei potenti e la protesta in modalità cantabile anni’60 di La terra sbatte.  Anche la compressione sensoriale di Fame d’aria, partendo da altri presupposti, sembra giocare di sponda con la stretta attualità del disagio fisico e mentale senza fine del tempo di pandemia. 

In un lavoro che non contempla momenti di pieno relax sulla falsariga radiofonica del singolo Venerdì dal precedente album, non mancano stoccate ad essa in parte riconducibili, la fresca e fertile ironia di Cactus, del secondo singolo Il Tonno e l’ariosa vitalità della ripresa della fossatiana Ventilazione.   La finale Scivola chiude il cerchio con un’ultima tenera confessione e il serio proposito di rimanere fedeli al proprio desiderio di trovare un punto fermo nella realtà e muoversi in armonia ad esso.