Agostino Di Bartolomei, “Ago” per gli amici, è stato il mio primo capitano della Roma. La mia prima figurina appiccicata all’armadietto di scuola. È scomparso tragicamente 30 anni fa, il 30 maggio del 1994, e tutti ne parlano ancora come di una persona presente. Come si parla di caro un amico, di un fratello, di un parente stretto. Perché Ago era ed è questo: un capitano triste, silenzioso, introverso, un animo gentile ma anche un combattente. Un uomo risoluto, serio ma anche dolce e di compagnia.



Si caricava sulle spalle il peso del mondo, sempre con la schiena dritta e il petto all’infuori, ma non voleva farlo pesare a nessuno, si teneva tutto dentro. Anche il giorno dello Scudetto 1983/1984, il secondo nella storia della Roma, tutti ricordano il suo sorriso a salutare la Curva Sud, un’emozione apparentemente controllata, ma noi sappiamo che in quel momento il suo cuore, dentro, era un’esplosione di gioia. Quel cuore grande, cosi grande che negli anni, dopo il ritiro, non ha retto le tante ingiustizie e le incomprensioni che il mondo del calcio, il suo mondo da sempre, gli ha riservato. Per dirla con le sue parole d’addio, “si sentiva in un vicolo cieco”.



Agostino Di Bartolomei è morto “solo”, un po’ per colpa sua, e di quel maledetto carattere, e un po’ per la distrazione colpevole degli amici che non lo hanno preso sul serio. Nello spogliatoio non servivano parole, men che meno urla, bastava un suo sguardo e un “daje” per comunicare e farsi capire. Quelle stesse persone, anni dopo, si sono voltate dall’altra parte. E, allora, ecco che Agostino Di Bartolomei, il 30 maggio 1994, 10 anni dopo la finale di Coppa Campioni persa dalla Roma col Liverpool, ha deciso di farla finita. Di mettere la parola fine. Non ha scelto un giorno a caso, non è stato banale nemmeno nell’ultimo istante della sua vita.



Quel giorno, per ogni romanista che lo ha vissuto, è stato un momento sportivamente e umanamente drammatico. Ricordo bene il giorno seguente, io col mio amico Nicola (anche lui romanista), in piscina. Non siamo mai entrati in vasca, siamo rimasti negli spogliatoi. Senza dirci una parola, lì a fissare il muro e a piangere ripensando a quei maledetti rigori. Per Ago, nato sui campetti della periferia romana, quella partita era il coronamento di un sogno coltivato da bambino: vincere una finale di Coppa Campioni, da capitano, con la propria squadra del cuore, giocando all’Olimpico, nel suo stadio.

Sembrava tutto perfetto, e invece la cabala, i rigori hanno spazzato via tutto. E quella sera si è rotto qualcosa in lui. Quel 30 maggio è stato forse il giorno più importante della sua vita ma anche il giorno più triste. Simbolo di promesse tradite e di ideali svaniti.

Il colpo di quella pistola puntata al suo cuore, come il fischio finale dopo i rigori: non ci ha lasciato scampo e ci fa gridare di rabbia. La stessa rabbia e disperazione di tuo figlio, che poco prima di spararti, avevi salutato, la mattina, con un bacio. Oggi Luca, quel ragazzo diventato uomo, ha reimparato ad amarti, a conoscerti attraverso gli occhi e i racconti di quelli che ti vogliono bene. Ha fatto un viaggio dentro il tuo dramma, i tuoi silenzi, le tue paure, arrivando persino a capire che c’era dell’amore anche in quel maledetto gesto folle che hai fatto. Ma soprattutto, grazie a te, ha capito che non è solo, ma che gli hai lasciato tanti veri amici e compagni di viaggio. Non c’è dono più grande che rinascere. Grazie Ago, questo 30 maggio 2024 è un po’ più lieve anche per me.